Benché non ne vada fierissima, fra i mattoncini
della mia formazione culturale figura Happy Days, serie televisiva americana
ambientata negli anni Cinquanta a Milwaukee e trasmessa in Italia a partire dal
1977. Fra i personaggi che la popolavano, c’era Arthur Fonzarelli, detto
Fonzie, dotato di leggendaria giacca di pelle, moto e di un grande talento
nell’accendere i jukebox a pugni, oltre che nel sedurre le ragazze. Pur avendo dimenticato
molti dettagli di quel telefilm della mia infanzia, di Fonzie conservo una
memoria vivida. Non perché ne subissi il fascino – il playboy non era il mio
genere neppure a dieci anni – ma perché aveva un handicap di cui allora ridevo
molto e oggi un po' meno: non sapeva dire “Ho sbagliato”. Quando ci provava,
bofonchiava suoni sconnessi e incomprensibili. L’economia marxista barese, mio
compagno di vita e padre dei miei figli, non somiglia molto a Fonzie: invece
della giacca di pelle, indossava palandrane sgualcite e improbabili magliette
con sublimali messaggi politici stampati sopra, il suo personale jukebox non
contiene rock and roll, ma canti di Resistenza e rap barese underground. E – mi
illudo – davanti alla porta del suo ufficio non stazionano stuoli di pin-up
adoranti, bensì solo qualche studente idealista, nerd e fricchettone,
proveniente dal Sud del mondo. Eppure anche mio marito soffre della medesima
tara del dongiovanni di Milwaukee. “Ehi! Chi ha buttato mezzo chilo di petti di
pollo nell’umido?” ho domandato costernata qualche giorno fa, davanti al penoso
spettacolo dello spreco del cibo. I tre maschi minorenni non ne sapevano
niente, così come la ragazza alla pari entomologa che vive e mangia pollo con
noi. Lui, il colpevole, era davanti allo schermo del suo computer che
picchiettava formule matematiche anticapitalistiche, i Bari Jungle Brothers in cuffia e l’abituale sguardo stralunato.
“Scusa, sei stato tu?” gli ho domandato, scuotendolo dalla trance in cui è
solito abitare. “Sì. Sono stato io. Quella carme era scaduta da due settimane.
Ringraziami!” ha risposto con la tipica sicumera degli economisti baresi. “Non
era scaduta! L’avevo tirata fuori dal freezer stamane per cucinarla a cena!”:
“La data sulla confezione era passata da un pezzo. Per me era scaduta”. “Non
potevi chiedere?”. “A chi? Tu non eri in casa. Così l’ho buttata”. “Ok. Capita
a tutti di fare degli errori”. “non ho fatto nessun errore: il pollo era
scaduto”. Mio marito apre un’anta e me la dà in testa? “Eri nel posto
sbagliato!”. Non riferisce che mia madre ha chiamato per una questione urgente?
“Non me lo hai chiesto”. Si dimentica un figlio in piscina? “Cola tua! Mi
distrai”. Perde il cellulare sul pullman per Malpensa? “Vedi? Io non lo volevo!
E colpa tua che mi hai obbligato a comprarlo”. Io, che al contrario di lui
elargisco scuse con dissennata spudoratezza, al cospetto di tanta arrogante
supponenza, orfana di un’ammissione di colpevolezza, perdo il senno e il
controllo. Potrei sferrare un pugno, cacciarlo di casa, gridargli insulti
volgarissimi, chiedere il divorzio e mandare all’aria anni di armonia coniugale
faticosamente costruita. Perché dire “Ho sbagliato” è un segno di forza, non di
debolezza, cari i miei Fonzie. Chiedere scusa significa assumersi le proprie
responsabilità. Riconoscere la propria natura fallace è un atto di onestà e di
coraggio non di resa. “E adesso che il pollo è nell’umido, per cena che cosa
facciamo?”. “Tranquilla. Ci penso io. Faccio una pasta e sono tutti contenti”.
“Come vuoi”. “Lo vedi? Ti risolvo tutti i problemi. Non capisco proprio che
cosa tu abbia da lamentarti”, dichiara candido prima di infilarsi di nuovo le
cuffie nelle orecchie.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 2
dicembre 2017 -
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