Il governo Monti aveva
varato un provvedimento anticorruzione.
Migliorabile, certo, ma
ora lo si fa morire di inedia
“Potente uguale impunito”. L’inchiesta de “l’Espresso” della
scorsa settimana fotografa una realtà amara : in Italia politici, imprenditori
e professionisti difficilmente vengono condannati penalmente, soprattutto per i
reati contro la pubblica amministrazione. La prescrizione funziona come
antidoto sicuro contro i rischi di sentenze definitive mentre le pene vengono
aggirate grazie a indulti o ai tanti benefici carcerari che funzionano
perfettamente solo per “certi” imputati.
Una questione sollevata poche settimane fa anche dall’Unione
Europea, che ci ha chiesto di fare il nostro dovere per arginare la corruzione,
e subito dimenticata.
Eppure poco più di un anno fa, nel novembre 2012, l’Italia
per la prima volta nella sua storia si è dotata di una normativa
anticorruzione. Una legge, voluta fortemente dal governo Monti e dai ministri
della Giustizia, Paola Severino, e della Pubblica amministrazione, Filippo
Patroni Griffi. Nonostante un tormentato iter, che aveva risentito della
necessità di trovare un compromesso fra le posizioni culturali e ideologiche
dei partiti che sostenevano l’esecutivo Monti, quella legge aveva introdotto
interessanti novità soprattutto sul piano della prevenzione.
Ripristinava, in particolare – dotandola di poteri, sia pure
non molto incisivi – l’autorità nazionale anticorruzione; prevedeva che in ogni
amministrazione dovesse essere individuato un responsabile della prevenzione e
venisse adottato un piano anticorruzione; introduceva obblighi di trasparenza e
pubblicità per molti atti soprattutto quando riguardavano impegni economici;
limitava il ricorso degli arbitrati ed ai consulenti esterni. Infine,
introduceva cause di incompatibilità, ineleggibilità e decadenza per gli
esponenti dell’amministrazione e della politica: proprio per quella legge è
stata dichiarata la decadenza del senatore Berlusconi.
Meno efficace quella normativa era apparsa per gli aspetti
repressivi. Aveva aumentato un po’ le
pene per alcuni reati, ma aveva modificato il reato in assoluto ritenuto fra i
più importanti per il contrasto alle tangenti e cioè la concussione. Esso era
stato scisso in due reati (la concussione vera e propria e l’induzione
indebita), con una novità assoluta: se nella concussione chi paga resta
vittima, nell’induzione chi versa le mazzette diventa complice e quindi va
anch’esso punito. Senonchè questa novità ha finito per essere un vero e proprio
ginepraio interpretativo ancora non chiarito, con una conseguenza paradossale:
essendo dubbio il confine fra la vittima ed il complice, ha finito per
rappresentare un disincentivo a presentare denuncia.
In quella legge, però, per scelta e per le difficoltà di
trovare una maggioranza parlamentare, non si erano affrontati altri nodi
ritenuti indispensabili per sconfiggere la corruzione. Non erano stati corretti
i troppo brevi termini di prescrizione dei reati; non era stata modificata la
norma sul falso in bilancio, di fatto depenalizzato nel 2001, né si era
introdotto il delitto di auto riciclaggio che consentisse di punire chi
investiva personalmente i proventi dei crimini.
Nemmeno, infine, erano stati previsti meccanismi premiali,
analoghi a quelli in vigore per i reati di mafia, per chi collabora con
l’autorità giudiziaria rivelando le tangenti: l’unico modo per portare alla
luce quei patti coperti da un’interessata omertà. Se la legge fosse stata
completata con queste misure, avrebbe potuto riportare il nostro paese in
condizioni di competere, sul piano della trasparenza e della legalità, con gli
Stati europei.
Ed invece cosa è accaduto dopo l’approvazione? Praticamente
nulla o persino peggio di nulla, perché non solo non si sono adottate le
integrazioni auspicate, ma si sta facendo morire di “inedia” la pur
giovanissima legge voluta da Monti.
Di fatto la parte migliore della normativa, quella che si
occupava di prevenzione, non è mai partita. Molte amministrazioni non si sono
dotate dei piani anticorruzione e non hanno nominato i responsabili di questa
vigilanza; gli obblighi di pubblicità e trasparenza sono rimasti sulla carta;
le incompatibilità fra gli incarichi (non solo politici) sono state in parte
già diluite o rinviate al futuro. Ma il segnale più disarmante è che non sono
stati ancora nominati i membri dell’autorità nazionale anticorruzione: ad oggi
funziona con i membri scelti per un altro organo (la Civit), quando ministro
della Funzione pubblica era ancora Brunetta.
I segnali che vengono dal fronte del Parlamento e del governo
sono oggettivamente non incoraggianti e fanno ritenere non solo un sospetto
quello secondo cui la lotta alla corruzione non sia assolutamente una priorità.
Eppure, a parole, sono tantissimi coloro che dichiarano quanto sia importante
una politica in tal senso e quanto essa possa avere ricadute sul piano
economico e degli investimenti non solo stranieri: nessuno investe dove si
pagano tangenti e la burocrazia più o meno corrotta la fa da padrona.
Chiunque pensi di voler rilanciare l’Italia deve essere
consapevole che il nostro per diventare un “Paese normale” deve dimostrare, con
i fatti e non solo con i proclami, che vuole combattere la corruzione, se non
per sradicarla quantomeno per riportarla entro confini fisiologici.
Raffaele Cantone – L’Espresso – 6 marzo 2014 -
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