Da molti
anni si è imposta fra noi un’interpretazione tragica della globalizzazione.
L’impatto della competizione fra l’Occidente e le potenze emergenti come Cina,
India, Vietnam o Brasile – ci è stato spiegato – ci risucchia verso il basso.
Per non soccombere dobbiamo scendere sempre di
più, adattare i nostri costi a quelli cinesi, quindi rinunciare a tante
conquiste sociali, a tanti diritti, a tante regole. Per combattere ad armi pari
con chi è più povero di noi, insomma, dobbiamo impoverirci. Potremmo chiamarlo
anche il “teorema Marchionne”, perché in Italia l’amministratore delegato del
gruppo Fiat-Chrysler ha contribuito con le sue scelte aziendali a diffondere
l’idea che queste sono le conseguenze ineluttabili della globalizzazione. Nel
mondo delle grandi imprese multinazionali questo discorso viene presentato come
oggettivo, neutrale, scientifico: è inutile opporsi alla realtà delle cose,
alle regole che la globalizzazione impone a tutti i soggetti del mercato. Se
tre miliardi di asiatici sono integrati a pieno titolo nell’economia mondiale,
è sciocco far finta che questo non abbia conseguenze; è assurdo pensare di
poter continuare a produrre nelle stesse condizioni (salari, diritti, tutele,
rigidità) che vigevano in Italia negli anni Settanta quando ancora la Cina era
un’economia chiusa.
E’anche in
quest’ottica che il modello americano ci è stato presentato come superiore al nostro. E’ più flessibile, pronto a
rispondere ai diktat della competizione, se necessario con sacrifici tremendi.
Un esempio recente, e importante per
noi: quando si è trattato di salvare l’industria automobilistica di Detroit che
nel 2008-2009 rischiava di scomparire, pur di evitare il fallimento di General
Motors e Chryler, il sindacato dei metalmeccanici (United Auto Workers) ha
accettato un brutale taglio dei salari. I nuovi assunti guadagnano grosso
modo la metà, rispetto ai salari in
vigore prima della crisi. La metà! Questa sì, è flessibilità. Questa è la
ragione per cui Sergio Marchionne preferisce senz’altro trattare con i
sindacalisti americani, e spostare negli Stati Uniti il baricentro del gruppo
Fiat-. Crysler . Se l’America riesce a
ricostruire – lentamente, parzialmente – un po’ di quel tessuto industriale che
era stato devastato dalle delocalizzazioni in Asia, è anche grazie a questo
tipo di rinunce.
Esiste però
un altro modello, molto più vicino a noi. E’ la Germania. So che non è facile
elogiare il modello tedesco, in una fase in cui questo paese è associato alle
politiche di austerity che l’eurozona ha adottato. Un giorno sì e uno no, la
cancelliera tedesca Angela Merkel viene descritta come la responsabile dei
sacrifici imposti a intere nazioni: Grecia, Portogallo, Spagna, anche l’Italia.
Quasi tutta l’intellighezia di sinistra, sulle due sponde dell’Atlantico, accusa
la Germania di disfare l’Unione Europea, con il suo dogmatismo in materia di
finanza pubblica.
(….)
Federico
Rampini – “Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale”
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