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venerdì 28 marzo 2014

Lo Sapevate Che: Sono Sposato a una Bio Devota...


L’amore ai tempi del seitan non è facile, se vivi con una integralista del cibo bio. Confessioni di un marito in crisi alimentare: diviso tra un passato dal sapore chimico e un presente profumato di granaglie

La sintesi perfetta della questione la coniò mio figlio Eugenio in un tema di terza elementare. Dopo sperticate lodi alla madre, piazzò un’unica critica: “La mamma, però, è un po’ fissata con il biologico. A volte a colazione mi dà una cosa che lei chiama miglio, ma a me sembra polistirolo”. La maestra della scuola Montassori, pur abituata alle scelte alternative, aveva riso molto. Io no. La convivenza con un’integralista del cibo totalmente naturale non è per niente facile: ogni piatto nasconde un ingrediente misterioso. Io e Laura stiamo assieme da 27 anni, durante i quali ho assistito alla sua trasformazione in una Giovanna d’Arco della rivoluzione biologica, pronta a mettere al bando qualunque alimento impuro. La nostra cucina è una fortezza dove le pietanze industriali non possono penetrare: le etichette sono sottoposte a un esame spietato, dalla località di origine (che deve essere lontana da zone notoriamente inquinate) alla garanzia di immunità da ogni genere di additivo, conservante, colorante o antiparassitario. Così la dispensa si è popolata di marchi esoterici e vegetali esotici, che promettono di essere gli ultimi germogli di un paradiso perduto. Un universo parallelo dove la pasta è solo di Kamut, la Nutella viene rimpiazzata dalla crema di nocciole Igp, e puoi imbatterti addirittura in biscotti all’amaranto. Lei sostiene che siano tutti più sani e più buoni. Io le credo solo a metà. Certo, l’amore è cieco, ma deve proprio perdere anche il palato Per quanto mi riguarda, da cultore del caffè espresso, l’esperienza più ardita è stata “il cicorione”. Era la bevanda del neorealismo, il surrogato a base di verdure e radici imposto all’Italia del Poveri ma belli dalle ristrettezze della guerra: un intruglio marrone scuro che ritenevo estinto da almeno mezzo secolo. E invece il nefasto liquido è risorto nella mia tazzina da moka una domenica mattina. Il primo sorso è stato una pugnalata, dritta nella gola. Mia moglie ha sorriso placida, guardandomi dall’alto in basso come fosse ispirata da una sapienza superiore: “E’ fatto con cicoria e ghiande, così riduci la caffeina. Ed eviti tutti i composti nocivi con cui trattano la buccia dei chicchi di caffè…”.
Io vengo dall’educazione ad alta sofisticazione degli anni Settanta, quella dei gelati in technicolor per i coloranti rosso fuoco, e delle merendine da  premio Nobel per la chimica. Sono cresciuto in una famiglia con scorte private di Ddt perché mio padre ripeteva: “Sì, l’hanno proibito e sarà pure pericoloso, ma è l’unica cosa che stermina qualunque insetto”. Il passaggio da questo pianeta artificiale a un mondo bucolico in cui si compongono austere insalate di quinoa. Perché il bio non è solo una questione di pietanze, ma un vero stile di vita.
La settimana bianca in Alto Adige per lei è un pellegrinaggio nei santuari del cibo incontaminato: latte di caprette che ricordano quelle di Heidi, succhi di frutta d’alta quota, confetture extravergini. Una volta mi ha convinto a scortarla direttamente dai produttori, e mi sono ritrovato alla ricerca di masi sperduti, tra Alpeggi dai nomi tedeschi irripetibili. Davanti alle mappe con percorsi da rally, ho provato invano a convincerla: “Forse non ne vale la pena…”. Inutile. Non era shopping, era una crociata. Non mi è rimasto che sdrammatizzare: “Bio lo vuole!”. Così ho guidato lungo mulattiere che costeggiavano dirupi da vertigine, e tratturi che nemmeno gli sherpa himalayani. Io resto convinto che si potessero acquistare comodamente su Internet, ma vuoi mettere il fascino di raggiungere le sorgenti della bontà più immacolata?
Del resto preferisco quelle avventure dolomitiche ai templi metropolitani dove si riforniscono le bio-devote. A Roma come a Milano, spesso questi sacrari si somigliano tutti: piccoli market rivestiti di legno, illuminati da lampade a basso consumo fioche come candele, a metà strada tra un fienile e una chiesa. Lì dentro si comunica in un lessico settario: un esperanto di tofu e Kefir, in cui tutto suona minimal tranne i prezzi. In compenso, si possono trovare pagnotte realizzate con ogni sorta di cereale tranne la farina bianca. Le vere pasdaran però il pane non lo comprano: lo preparano da sole, secondo il culto del lievito madre. La fondamentalista con cui vivo si trasforma settimanalmente in fornarina, e pur di non mancare l’appuntamento è disposta a impastare anche in piena notte. Al risveglio i risultati sono eccezionali, lo riconosco: la casa è ancora invasa dal profumo e si spalma la marmellata su fette soffici, ancorché integrali e cosparse di semini. Nulla a che vedere con il durissimo panino casalingo di About a Boy, quello che Hugh Grant gettava alle anatre del laghetto abbattendole sul colpo.
Più di tutto, comunque, è stata messa a dura prova la mia indole carnivora. Non mi rassegno agli hamburger di seitan e alghe, che lei spiattella radiosa : “Buoni no? Meglio della chianina”. Viceversa, confesso di aver riscoperto il gusto ruspante del pollo d’altri tempi (la carne bianca può godere di un salvacondotto, purchè dimostri di essere scevra di antibiotici e anabolizzanti), grazie agli animali che razzolano in semilibertà. Una cosa però proprio non mi va giù: sapere che, in fondo, quei pennuti privilegiati mangiano le stesse cose che vengono propinate a me. Granaglia più, granaglia meno.
Gianluca Di Feo – Donna di Repubblica – 22 marzo 201

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