L’amore ai tempi del
seitan non è facile, se vivi con una integralista del cibo bio. Confessioni di
un marito in crisi alimentare: diviso tra un passato dal sapore chimico e un
presente profumato di granaglie
La sintesi perfetta della questione la coniò mio figlio
Eugenio in un tema di terza elementare. Dopo sperticate lodi alla madre, piazzò
un’unica critica: “La mamma, però, è un po’ fissata con il biologico. A volte a
colazione mi dà una cosa che lei chiama miglio, ma a me sembra polistirolo”. La
maestra della scuola Montassori, pur abituata alle scelte alternative, aveva
riso molto. Io no. La convivenza con un’integralista del cibo totalmente
naturale non è per niente facile: ogni piatto nasconde un ingrediente misterioso.
Io e Laura stiamo assieme da 27 anni, durante i quali ho assistito alla sua
trasformazione in una Giovanna d’Arco della rivoluzione biologica, pronta a
mettere al bando qualunque alimento impuro. La nostra cucina è una fortezza
dove le pietanze industriali non possono penetrare: le etichette sono
sottoposte a un esame spietato, dalla località di origine (che deve essere
lontana da zone notoriamente inquinate) alla garanzia di immunità da ogni
genere di additivo, conservante, colorante o antiparassitario. Così la dispensa
si è popolata di marchi esoterici e vegetali esotici, che promettono di essere
gli ultimi germogli di un paradiso perduto. Un universo parallelo dove la pasta
è solo di Kamut, la Nutella viene rimpiazzata dalla crema di nocciole Igp, e puoi
imbatterti addirittura in biscotti all’amaranto. Lei sostiene che siano tutti
più sani e più buoni. Io le credo solo a metà. Certo, l’amore è cieco, ma deve
proprio perdere anche il palato Per quanto mi riguarda, da cultore del caffè
espresso, l’esperienza più ardita è stata “il cicorione”. Era la bevanda del
neorealismo, il surrogato a base di verdure e radici imposto all’Italia del Poveri ma belli dalle ristrettezze della
guerra: un intruglio marrone scuro che ritenevo estinto da almeno mezzo secolo.
E invece il nefasto liquido è risorto nella mia tazzina da moka una domenica
mattina. Il primo sorso è stato una pugnalata, dritta nella gola. Mia moglie ha
sorriso placida, guardandomi dall’alto in basso come fosse ispirata da una
sapienza superiore: “E’ fatto con cicoria e ghiande, così riduci la caffeina.
Ed eviti tutti i composti nocivi con cui trattano la buccia dei chicchi di
caffè…”.
Io vengo dall’educazione ad alta sofisticazione degli anni
Settanta, quella dei gelati in technicolor per i coloranti rosso fuoco, e delle
merendine da premio Nobel per la
chimica. Sono cresciuto in una famiglia con scorte private di Ddt perché mio
padre ripeteva: “Sì, l’hanno proibito e sarà pure pericoloso, ma è l’unica cosa
che stermina qualunque insetto”. Il passaggio da questo pianeta artificiale a
un mondo bucolico in cui si compongono austere insalate di quinoa. Perché il
bio non è solo una questione di pietanze, ma un vero stile di vita.
La settimana bianca in Alto Adige per lei è un pellegrinaggio
nei santuari del cibo incontaminato: latte di caprette che ricordano quelle di
Heidi, succhi di frutta d’alta quota, confetture extravergini. Una volta mi ha
convinto a scortarla direttamente dai produttori, e mi sono ritrovato alla
ricerca di masi sperduti, tra Alpeggi dai nomi tedeschi irripetibili. Davanti
alle mappe con percorsi da rally, ho provato invano a convincerla: “Forse non
ne vale la pena…”. Inutile. Non era shopping, era una crociata. Non mi è
rimasto che sdrammatizzare: “Bio lo vuole!”. Così ho guidato lungo mulattiere
che costeggiavano dirupi da vertigine, e tratturi che nemmeno gli sherpa
himalayani. Io resto convinto che si potessero acquistare comodamente su
Internet, ma vuoi mettere il fascino di raggiungere le sorgenti della bontà più
immacolata?
Del resto preferisco quelle avventure dolomitiche ai templi
metropolitani dove si riforniscono le bio-devote. A Roma come a Milano, spesso
questi sacrari si somigliano tutti: piccoli market rivestiti di legno,
illuminati da lampade a basso consumo fioche come candele, a metà strada tra un
fienile e una chiesa. Lì dentro si comunica in un lessico settario: un
esperanto di tofu e Kefir, in cui tutto suona minimal tranne i prezzi. In
compenso, si possono trovare pagnotte realizzate con ogni sorta di cereale
tranne la farina bianca. Le vere pasdaran però il pane non lo comprano: lo
preparano da sole, secondo il culto del lievito madre. La fondamentalista con
cui vivo si trasforma settimanalmente in fornarina, e pur di non mancare
l’appuntamento è disposta a impastare anche in piena notte. Al risveglio i
risultati sono eccezionali, lo riconosco: la casa è ancora invasa dal profumo e
si spalma la marmellata su fette soffici, ancorché integrali e cosparse di
semini. Nulla a che vedere con il durissimo panino casalingo di About a Boy, quello che Hugh Grant
gettava alle anatre del laghetto abbattendole sul colpo.
Più di tutto, comunque, è stata messa a dura prova la mia
indole carnivora. Non mi rassegno agli hamburger di seitan e alghe, che lei
spiattella radiosa : “Buoni no? Meglio della chianina”. Viceversa, confesso di
aver riscoperto il gusto ruspante del pollo d’altri tempi (la carne bianca può
godere di un salvacondotto, purchè dimostri di essere scevra di antibiotici e
anabolizzanti), grazie agli animali che razzolano in semilibertà. Una cosa però
proprio non mi va giù: sapere che, in fondo, quei pennuti privilegiati mangiano
le stesse cose che vengono propinate a me. Granaglia più, granaglia meno.
Gianluca Di Feo – Donna di Repubblica – 22 marzo 201
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