Da 30
giorni ci osserva da molto vicino e non è ancora fuggita.
Vedersi con
i suoi occhi è una pratica di auto-coscienza
Per quanto una pensi di non aver granché da
nascondere, per quanto racconti, senza veli e senza vergogna, di sé e del
proprio mondo, per quanto apra con entusiasmo e spudoratezza la sua casa e la
sua cucina, convinta che, come altri, nel più ci stia il meno, per quanto covi
il sogno recondito di vivere in una comune in cui siano banditi le porte e il
concetto di proprietà, esiste sempre un giardino, una stanza, un cassetto
inviolabile.
Tutti noi, per quanto aperti e disinibiti,
abbiamo un posto intimo e privato, un terreno, più o meno ampio, recintato e
invalicabile, una zona rossa il cui il cui ingresso è severamente vietato agli
estranei.
La mia zona rossa è il tutone diserotizzante che
mi infilo quando lo sfinimento vince sul senso estetico. E’ la domenica, quando
a mezzogiorno non siamo ancora vestiti e ci trasciniamo come zombie in preda
all’accidia. E’ una cena a base di pane, prosciutto e cioccolato, è la chiave
nella toppa che si chiude senza fare
rumore perché la solitudine diventa un’urgenza, è il tango con il casquet ballato con i miei figli in
corridoio, è la radio a tutto volume mentre preparo le polpette ancheggiando, è
il ripasso dei verbi con mio figlio, quando lui spegne il cervello e io accendo
la strega urlante. La mia zona rossa sono le mattinate da homeworker in cui
traccheggio e mi perdo per ore, per poi, in preda a senso di colpa e livore,
chiudermi in uno stress iperproduttivo e velenoso. Sono l’insofferenza verso
quattro maschi ingombranti e chiassosi, il pozzo nero che mi artiglia,
l’euforia molesta e il malumore improvviso, ancor più molesto. La mia zona
rossa siamo io e la mia famiglia, quando scaviamo il fondo del barile di noi
stessi e troviamo le ragnatele, il buio e i mostri.
Per il secondo anno consecutivo, abbiamo deciso,
per compensare le assenze dell’economista marxista itinerante e le presenze
della mater familias stanzialmente sfinita, di accogliere per qualche mese una
ragazza alla pari. E’ americana, è cresciuta in una comunità hippie del New
England, sogna, da grande, di aiutare gli adolescenti disorientati, è lieve,
ridanciana, discreta. Praticamente perfetta. E poi è femmina e per me, abituata
al testosterone e alle bizze di quattro coinquilini maschi, la convivenza con
una donna rappresenta pura beatitudine.
E nonostante non sia un’esperienza nuova, avevo
dimenticato cosa significhi accogliere un’estranea sotto il mio tetto. Non sto
parlando dei cambiamenti nella quotidianità spiccia – l’acquisto di quattro
litri di latte in più ogni settimana, l’introduzione del burro di noccioline
nella dispensa, le visioni apocalittiche quando esce la sera e alle due di
notte non è ancora rientrata – ma della necessità di aprire la zona rossa e di
mettersi in gioco, senza ritegno e senza veli.
Perché è possibile fingere di essere quello che
non sei, mantenere un contegno, evitare il tutone diserotizzante e la metamorfosi
in strega urlante, essere promozionale ed esemplare, per un tempo limitato.
Ma quando qualcuno si insinua in modo capillare e
cronico dentro il terreno recintato della tua intimità, le barriere
inevitabilmente cadono una dopo l’altra e la tua essenza, pubblicamente
mascherata dietro una patina di rispettabilità, esce allo scoperto prepotente e
impudica.
Così, a un mese dal suo arrivo, lei è ormai parte
di noi, ha forse suo malgrado, poveraccia, scandagliato gli abissi dei nostri
lati oscuri, assistito alla caduta di ogni resistenza, conosciuto ciò che
nemmeno mia madre, grazie dato al cielo,
conosce.
Attraverso il suo sguardo sornione, ho guardato
la mia famiglia allo specchio. E talvolta è stato scioccante.
E’ una pratica di autocoscienza utile e costruttiva,
per quanto destabilizzante. Dopo questi 30 giorni lei non è scappata, io mi
faccio molte più domande e mi metto parecchio in discussione. Forse è un buon
risultato. Senz’altro è terapeutico.
@elasti@repubblica.it - Donna di Repubblica – 15 marzo 2014-03-25
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