Scrive l’antropologo Claude Meillassoux: “La schiavitù non è finita. Essa perdura nelle società che si definiscono umanistiche, anche se edificate sulla spoliazione dell’uomo”
Il titolo della sua rubrica: “Le nostra parole mentono per noi” del 30 marzo scorso è senz’altro vero. Questa nostra società ipertecnologica, cresciuta fino a sette miliardi di esseri umani, con attese di vita raddoppiate rispetto a poche decine di generazioni precedenti, ha paura di dire a se stessa che oggi come ieri è basata sulla gestione della schiavitù, utilizzata ed esplicita negli antichi imperi e fino a pochi decenni fa.
Si sono abolite alcune forme esteriori (deteriori) come catene e marchi a fuoco, per sostituirle con altre forme di costrizione di raggiro, di ricatto e negazione dei diritti fondamentali, riverniciate ben bene da parvenze legali, con apparenti e momentanee speranze o benefici seguiti poi da paure, angosce, drammi. Tutto ciò con l’aggravante di farci credere di essere uomini liberi in società democratiche, addirittura “fondate sul lavoro” e persino col “diritto alla ricerca della felicità”.
Tutti vediamo questa schiavitù nelle varie forme (precariato, delocalizzazione, esodati, immigrati, troppo vecchi per, troppo bravi per, lavoro minorile, sequestro di persona o dei documenti), ma nessuno ha il coraggio di chiamarla con il suo vero nome. Abbiamo paura del suono della sola parola. Io penso invece che dovremmo fare lo sciopero dell’ipocrisia e avere più rispetto per noi stessi, chiamando tutte le cose con il proprio nome.
Non sono sicuro, ma credo che solo al nuovo Papa Fancesco sia scappato un “basta schiavitù”, che però pochi hanno riportato e commentato.
Piero Amorati
Nell’introduzione al libro dell’antropologo Claude Meillassoux, Antropologia della schiavitù (Mursia), Alessandro Triulzi individua l’essenza della schiavitù nel fatto che gli schiavi sono “socialmente sterili”, nascono e si riproducono biologicamente, ma non nascono nella società, dove non hanno rilevanza. Hanno lo statuto della merce e al pari della merce rispondono ai criteri del valore d’uso e del valore di scambio.
Giustamente la nostra Costituzione si definisce “fondata sul lavoro”, perché il lavoro è la porta d’ingresso nella società, ma se il lavoro non c’è perché il mercato non lo richiede, i nostri giovani rientrano nella categoria dei “socialmente sterili”, proprio come gli schiavi. Talvolta vengono impiegati per un certo periodo di tempo, rispondendo al pari delle merci al valore d’uso, e poi, quando il contratto a tempo scade, si offrono al valore di scambio diventando “flessibili”.
L’unica differenza rispetto alla schiavitù classica è che gli schiavi dell’epoca coloniale avevano un padrone (come peraltro ancora oggi gli immigrati che, in condizioni disumane, raccolgono nel meridione pomodori o arance), mentre gli “schiavi” odierni e i loro “padroni” sono dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato. E come fai a prendertela col mercato o a ribellarti al mercato, anche quando esso confligge col mondo della vita, al punto da creare masse sempre più ingenti sotto la soglia della povertà?
Mancano gli strumenti, non si intravedono strategie, al massimo si sfoga la propria indignazione in manifestazioni che non modificano alcunché.
Con riferimento alle forme di schiavitù mascherata, mai chiamate col loro nome, che lei nella sua lettera elenca, possiamo dire che quando parliamo di “precariato“diciamo subordinazione della vita umana alle esigenze di mercato. Quando diciamo “ delocalizzazione” dovremmo dire sfruttamento di mano d’opera nei paesi meno sviluppati. Quando parliamo di immigrati dobbiamo pensare all’abbattimento dei costi del lavoro, quando non al lavoro nero. La vita dura in media 70 o 80 anni, ma chi perde il lavoro a 50 è troppo vecchio per trovarne un altro, e perciò, al pari degli schiavi, rientra nella categoria del “socialmente sterili” per la sua irrilevanza sociale, allo stesso modo dei “troppo bravi”, costretti a emigrare da un paese che ancora fatica a riconoscere la meritocrazia. E poi c’è la schiavitù sommersa delle donne, divise tra lavoro e famiglia, senza adeguate strutture di supporto per la cura dei figli e un margine di tempo per pensare a se stesse e alla realizzazione dei propri sogni.
Se l’antica schiavitù massacrava i corpi con pesanti turni di lavoro ed esemplari punizioni, la moderna schiavitù massacra l’anima, rendendola esangue nell’implosione di ogni progetto e nel brusco risveglio da ogni sogno anche solo accennato.
Umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica-27-04-13
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