Quel Lento Cammino Che Ci Aiuta A Recuperare La Giusta Distanza
Caro Serra, un rimedio contro i divieti di sosta, il traffico, gli ingorghi, i giri a vuoto in cerca di un parcheggio? Camminare: solo, a pronunciarla, è già parola distensiva, parisillaba, risuona in altre che hanno lo stesso pregio di acquietare la mente e di esprimere gioia, gusto per la vita: Accompagna il respiro.
Camminare ci fa godere di più del tempo rubato agli affari (camminare come “sosta de-ambulante” distensiva), ci restituisce alla nostra corporeità (camminare come palestra naturale e gratuita). Sferza i sensi intorpiditi dalla vita sedentaria, illuminata dal neon, priva di odori che non siano asfissianti (camminare come esperienza emotiva e sentimento di esistere). Ogni passo può mutare l’evidenza del selciato in una fluida corrente di incontri imbattendosi per caso in nuovi sguardi, attese d’amore e d’amicizia, spiando i volti alle finestre. Chi sceglie oggi di camminare piuttosto che ricorrere ad altri mezzi di trasporto forse non sa di porsi nella traccia di una tradizione religiosa, di un antico modo di intendere e interpretare l’esistenza e il rapporto con il divino. Camminando si avverte che il respiro cambia, i muscoli riprendono vita, si impara a notare ciò che lungo lo stesso tragitto, percorso in altro modo, non si riusciva a cogliere, alzandogli occhi al cielo per inseguirvi un aereo o le nuvole in movimento, rasentando i muri, attraversando un giardino. Camminare non è correre, non è competere, non è gareggiare, ma assecondare un bisogno di rallentamento, di pacatezza, di riduzione di ogni frenesia.
Mauro Luglio (Monfalcone)
Caro Luglio, sante parole. Sante non solo perché rimandano a uno dei pochi riti comuni a quasi tutte le religioni (il pellegrinaggio) e praticabile con entusiasmo anche dai non credenti o dagli ipo-credenti; ma perché permette ai lettori, e a me, di prenderci una piccola salubre vacanza dalle ansie sociali, dai veleni politici, insomma dalla polis affollata nella quale viviamo, in questo periodo, con speciale disagio. Allontanarci (a piedi) dalla piazza ci aiuta a recuperare la giusta distanza. Mi è capitato di farlo, non metaforicamente, percorrendo il Cammino di Santiago per Radio3, insieme a mia moglie Giovanna Zucconi, qualche anno fa. Ricordo l’uscita da Pamplona, il progressivo diradarsi delle case, i lunghi viali anonimi che portano alle fabbriche e dopo i campi i colli, il vento, il cielo. Pochi minuti in automobile, diverse ore a piedi: ci ha del tempo una visione speculativa non può capire il senso di vittoria e di libertà (anche di vittoria sul tempo, e di libertà dal tempo…) che pervade il camminatore passo dopo passo. Mai ebbi eguale
sensazione di essermi “liberato” di una città come quel giorno a Pamplona.
I nostri lettori conoscono bene la coincidente attività di camminatore e di narratore di Paolo Rumiz, i cui luoghi reportage a puntate hanno portato in questo giornale aria, luce, facce, paesaggi, insomma geografia.
Sul rapporto, molto fecondo, tra il camminare e lo scrivere (tra il respiro e la parola, per dirla poeticamente) mi permetto di aggiungere una piccola bibliografia personale, certamente molto simpatica. All’arcinoto Bruce Chatwin, pioniere moderno della scrittura “a piedi”, aggiungo il nostro Enrico Brizzi”, che ha trasformato diversi viaggi a piedi in libri, e non si capisce bene se cammina per scrivere o scrive per camminare; poi Sul sentiero degli dei di Wu Ming, racconto-riflessione su un lungo viaggio a piedi da Bologna a Firenze; infine, appena uscita, l’antologia Stella d’Italia – a piedi per ricucire il Paese, raccolta di scritti, a cura di Antonio Moresco. Ma adesso, sia pure a malincuore, torniamo nella polis…
lapostadiserra@repubblica.it – Venerdì di Repubblica 24-05-13
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