Ho scritto una storia. Che fra un anno sarà uno spettacolo teatrale. L’ho scritta perché credo che il teatro ci debba far capire che cosa ci fa male, che cosa ci mette a disagio.
La storia parla di Pietro, un ragazzo di provincia, della provincia meridionale. Per carità, non credo che quella settentrionale sia meglio, è persino più bigotta e maligna, semmai al sud rimane un residuo di tolleranza, tuttavia la provincia acuisce la diversità: anche la grande città ha i suoi tabù, ma la provincia è la conseguenza più tremenda di una metropoli, e del Sud, si sa, ci interessano solo le tragedie, non le cose importanti della vita.
Pietro è nato femmina ai piedi del Vesuvio, provoca parlando in falsetto, ha un corpo sbagliato e un animo passionale, influenzato dal vulcano. Tutti quelli che nascono sotto un vulcano sono dediti all’amore, sanno offrirsi, come se la natura esplodesse di vita, per esempio le donne sono più fertili lungo la circonvesuviana che a Napoli. Pietro vive coi genitori, è figlio unico, il padre l’ha messo a lavorare in una pompa di benzina, s’innamora infelicemente un sacco di volte. L’unica sua libertà è scappare di sabato a Napoli: ci va a far shopping e a ballare, ma soprattutto a camminare, che bello camminare quando tutti sono troppo indaffarati per guardarti, già il camminare per strada è un problema per chi nasce in un paesino. A dir la verità, le libertà che Pietro riesce a ritagliarsi sono due; perché a volte, di sera, si chiude nella sua cameretta, che è ancora quella di quand’ero bambino, coi poter attaccati con lo scotch, si traveste da donna, si mette gli abiti che si è comprato in via Duomo, calza le decolleté tacco 12 e numero 42, sposta i mobili, allarga il suo spazio, impila il comodino sul letto, spinge nell’angolo l’armadio. E poi balla.
Pietro cresce patteggiando minuscole evasioni col suo corpo sbagliato. A 40 anni incontra il grande amore. Corrisposto. Ma resta li paziente al paese, a casa dei genitori, e il sabato va a ballare a Napoli. Per due anni dura la storia, finché una sera Pietro, pazzo di passione, chiede all’amante di poter dormire insieme. E lui gli confessa che non può, è sposato e ha due figli. Pietro resta di stucco, l’altro lo illude ancora, macché, aspettiamo, vedrai, mia moglie non conta più niente….Pietro prende l’iniziativa per la prima volta in vita sua. Decide di parlare lui con la moglie, la va a trovare, a te non ti vuole più, se non la vuoi capire, guarda che io mi porto via le creature, le cresco io con lui…
In nome dell’amore Pietro si esalta, intravede un futuro, fa la valigia, maltratta la madre che non l’ha mai capito. Non ha ancora chiuso la valigia che riceve una telefonata dal suo amore: che gli ordina di non farsi vedere mai più, lo minaccia persino di morte. E finisce così. Pietro invecchia al paese, continua a lavorare alla pompa di benzina, la madre gli ha detto che gli amori vanno e vengono.
Ho scritto questa storia perché spero che sulle unioni omosessuali l’Italia colmi il ritardo con l’Europa. Perché detesto la repressione del vero desiderio, del talento. E non vorrei tutto questo disincanto, Pietro non ci prova neanche a scappare, del resto a 40 anni è difficile, il tuo passato sfuoca, il tuo futuro si accorcia. Non c’è tempesta ormonale che tenga, da una delusione non ti ripigli più. E perché mi spiace che non si capisca quanto la diversità sia occasione di crescita, di confronto. Penso poi che al Sud persista questo problema della virilità: ci si augurano figli maschi come ci fossero ancora dinastie e soldi da tramandare e non disperdere, quando si deve apparecchiare la tavola si alzano solo le figlie femmine. Odio gli uomini, sì, dico uomini come l’amante di Pietro. Sono tantissimi, vigliacchi, approfittano delle anime fragili per le loro voglie e non dicono mai la verità a nessuno, le donne sono diverse, prima o poi esplodono e la verità te la dicono. Ma ho scritto questa storia soprattutto perché ho conosciuto tanti Pietro. Ma non li ho mai visti ballare. Li ho sentiti monchi, stretti dalla morsa delle loro camerette condominiali. Io vorrei vederli ballare, vorrei più spazio per loro.
Questo spettacolo penso d’intitolarlo Operetta Burlesque. Perché sarà un varietà ma anche uno spogliarello dell’anima.
Emma Dante – Donna di Repubblica – 27-04-13
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