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giovedì 25 maggio 2017

Lo Sapevate Che: Il fascismo del giorno dopo nel parcheggio di Centocelle...



“Che poi Centocelle è vicina, in 20 minuti ci siamo arrivati”, mi dice Andrea una volta arrivati in ufficio nel centrale quartiere di Prai (che per me, nato, cresciuto e vissuto a San Giovanni, risulterà sempre Roma Nord). Sì, Centocelle, Roma est, non è alla periferia del mondo. Centocelle è Roma, Roma piena, Roma da sempre, a portata di mano, di scooter e sentimenti. Centocelle, se non ci vai e ti limiti a leggerne il nome in cronaca, sembrerebbe avere il fascino maledetto dei posti mentalmente concepiti come distanti, difficili da raggiungere più emotivamente che fisicamente. E invece no. Arrivare nel parcheggio dove la notte prima sono state bruciate vive tre sorelle rom di 20, 8 e 4 anni che dormivano con altri 8 membri della famiglia in un camper, è relativamente semplice. Una volta arrivato ti scordi presto di stare nella “terribile” Centocelle, cerchi degrado ma hai visto di peggio, cerchi popolo ma non c’è nessuno, la gente lavora, va a scuola o sta a casa, qui come altrove. In compenso aumentano le telecamere a braccare chi viene a rendere omaggio alla macchia nera lasciata dal rogo del camper ormai rimosso) sul cemento. Che è una traccia tragica, infame, criminale, disumana lasciata in un posto chiamato Centocelle, che comunque è Roma, che comunque è l’Italia nel 2017. Per trovarne altre di tracce del presente, basta alzare di poco lo sguardo. “Lunga vita al Duce, “W er Duce”, “frocio”, (con orgogliosa allusione al tifoso del Napoli ucciso a Roma da un romanista di estrema destra), svastiche, celtiche, bestemmie, qualche ostinata frase d’amore. C’è soprattutto questo scritto e disegnato sui muretti che perimetrano il parcheggio del rogo. A Centocelle come a San Giovanni, come a Prati, come in quasi tutta la città, dove il rigurgito fascista si manifesta spudorato. Sono tracce coerenti e affini son gran parte di quanto nelle stesse ore si rinviene sui social network, dove per scaricare odio e razzismo non occorre nemmeno sporcarsi con lo spray, dove basta sapere che a morire sono stati dei rom per trovare il coraggio di esprimere, spesso con nome e cognome, il rammarico che non ne siano morti di più. Sapere che ad uccidere pare sia stata una faida tra clan, infine monda definitivamente la coscienza di chi sembra quasi avere il rimpianto di non aver contribuito al crimine. Il giorno dopo, incurante dei fiori lasciati sul posto da chi ha provato a chiedere scusa per tutti, una signora, con tutto il parcheggio a disposizione, si ostina a parcheggiare la macchina proprio su quella macchia nera.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di La Repubblica – 19 maggio 2017 -

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