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mercoledì 3 maggio 2017

Lo Sapevate Che: Tutte le altre parole che servono dopo aver detto "Ti amo"...



Ho Letto La sua pagina sul rischio che corrono gli attori nell’interpretare personaggi che, oltre il copione, abitano anche l’inconscio dell’attore che, se ha familiarità con questi personaggi, risulta autentico, altrimenti, quando “il controllo dell’Io salta, succede l’inferno, ossia la follia. (…). Sono i nostri demoni che prendono il sopravvento. Sono gli abitanti dell’inconscio che prendono vita”. Se la psicologia fosse come la scienza, non crede che potrebbe fare luce su questi personaggi in modo che, una volta conosciuti, non se ne debba più essere preda inconsapevole, rischiando inferno e follia? Se la scienza, a fronte del mistero della natura, ci dà conoscenze che non ci fanno più correre, come i “primitivi”, a rifugiarci nella caverna, terrorizzati da tuoni e fulmini, la psicologia che si cimenta con il mistero dell’essere umano mette ancora nel sacco dell’inconscio tutto quel che non sa e che dovrebbe, più correttamente, nominare inconosciuto, piuttosto che inconscio inesplorabile.  Mario Tancredi  mario.tancredi@fastwebnet.it
Conoscere La Natura è molto più facile che conoscere se stessi. Perché la natura è fuori di noi e possiamo esaminarla come un oggetto. Noi invece non possiamo guardarci dall’esterno come si guardano gli oggetti se non negando la nostra soggettività. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito introdotta da Wilhelm Dilthey (1833-1911) segna, oltre, che la differenza tra i due tipi di sapere, anche il nostro limite in ordine alla conoscenza di sé. Quanto all’inconscio, non è un cestino dei rifiuti e neppure una discarica. Non è un sostantivo che designa una cosa, ma un aggettivo che denomina tutto ciò a cui la nostra coscienza non presta alcuna attenzione. E ogni psicologia del profondo attribuisce a questa inconsapevolezza le molte cose che la coscienza non prende in debita considerazione. Eugen Bleuler, e dopo di lui il suo allievo Carl Gustav Jung, attribuiscono all’inconscio tutte le possibili forme d’esistenza che non si sono attuate e tutte le potenziali espressioni della vita – da quella infantile a quella senile, da quella femminile per i maschi a quella maschile per le donne, dall’ombra della nostra personalità alla creatività dell’anima – in cui talvolta ci riconosciamo ma che il più delle volte trascuriamo. (..). Siccome noi non ci rassegniamo a essere questo e nient’altro, viviamo a partire dal nostro Io che inventa progetti, ideazioni, aspirazioni, sogni fino all’ultimo giorno quando, inutili per l’economia della specie, questa, che ha bisogno del ricambio degli individui, nella sua crudeltà innocente ci destina alla morte. (..). Se non prestiamo attenzione non tanto a quello che possiamo fare noi con la tecnica, quanto a che cosa la tecnica può fare di noi, la razionalità tecnica finisce con l’abitarci inconsciamente al punto che, anche nei rapporti d’amore, dopo che si è detto “ti amo”, si trova superflua e inutile ogni altra espressione. Siccome l’uomo non è solo razionale ma anche e soprattutto irrazionale, teniamoci cara la nostra irrazionalità inconscia se vogliamo evitare di diventare, a nostra insaputa, come le macchine. In questo caso la sorte che ci attenderebbe non sarebbe dissimile da quella riferita da Gunther Anders a proposito di “un re che non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo: perciò gli regalò una carrozza e cavalli: “Ora non hai più bisogno di andare a piedi”, furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito di farlo”, era il loro significato. “Ora non puoi più farlo”, fu il loro effetto”. Introiettando la razionalità strumentale propria della tecnica, vogliamo diventare come quelli che non sono più in grado di dire una parola di più dopo che hanno detto “ti amo”, giudicando ogni altra espressione superflua, sovrabbondante e non funzionale, come prevede il regime della razionalità tecnica?
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 22 Aprile 2017 -

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