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sabato 6 maggio 2017

Lo Sapevate Che: Basta una sedia da bambini per sentirsi liberi...



Da Bambina Avevo una sedia soltanto mia, regalo di mio nonno. Con il suo schienale dritto e i suoi braccioli, era bellissima. Tuttavia ciò che la rendeva speciale non era la sua seppure pregiata fattura ma la sua dimensione mignon, adatto alla mia all’età di quattro anni. La mia seggiola e io ci spostavamo da una camera all’altra seguendo il fulcro dell’azione domestica, come il pubblico di uno spettacolo itinerante. Uno dei nostri luoghi preferiti era la stanza da bagno la mattina presto. Era lì che mio papà, un asciugamano attorno alla vita e il rasoio in mano, si radeva la barba. E cantava, non sempre intonato, le canzoni di Giorgio Gaber: la mia preferita era La libertà, che “non è star sopra un albero e non è nemmeno il volo di un moscone né uno spazio libero”. Ad accendere il mio entusiasmo non era quel concetto nobile e impegnato della “partecipazione”, ma l’immagine di donne e uomini appollaiati sui rami come colombi, illusi e perdenti in quella gara all’emancipazione, come i mosconi e come gli spazi vuoti. E più ascoltavo e ripetevo quelle strofe più mi convincevo che ero libera perché ero lì seduta sulla mia seggiola a contemplare l’unico uomo della mia vita, nel punto esatto dell’universo dove desideravo essere. Dev’essere stato in una di quelle mattine che gli chiesi di sposarmi. Quella seggiolina di vimini che sta in un angolo a casa di mia mamma, oggi è troppo piccola persino per mio figlio minore. Le canzoni si Gaber, pure amandole ancora moltissimo, le canto sempre più di rado. Sarà che entrambe, loro ed io, abbiamo perso i nostri papà. Eppure alla libertà penso ancora spesso, nella sua accezione più alta e profonda e in quella più quotidiana e domestica. E talvolta mi sento sopra un albero, illusa di avere qualcosa di cui ho perso contezza. Come tutti i beni di libertà diventa preziosa quando scarseggia. Ho smesso di sentirmi padrona del mio tempo e del mio arbitrio quando ho cominciato a lavorare. Appaltare ad altri otto ore della mia giornata mi pareva un’atroce concessione. E se quella perdita fu mitigata a uno stipendio fisso e regolare che mi regalava un brivido mensile di presunta ricchezza, ebbi piena consapevolezza della mia definitiva abdicazione dal mondo dei liberi quando diventai madre. Nell’open space in cui lavoravo allora eravamo molte donne, quasi tutte coetanee e in gran parte inghiottite dallo stesso tunnel di affanni, incombenze, figli, accudimento, fatica e claustrofobia. Le mie rinunce erano anche le loro e la condivisione di un medesimo destino da criceti in gabbia lo rendeva tollerabile. Ci stavamo sacrificando sull’altare della conciliazione, causa imprescindibile e strada maestra per la libertà delle nuove generazioni di donne. Da qualche anno invece lavoro in un ambiente ben più eterogeneo e variegato, in cui sono l’unica madre, per giunta di te figli. I miei colleghi spesso escono a cena, vanno ai concerti, celebrano il rito dell’aperitivo, alcuni conducono esistenze dissolute e gaudenti, hanno una gestione del tempo flessibile e anarchica, sono padroni del loro tempo e della loro agenda. Non so se siano più felici ma di certo sono liberi. E io li guardo come i bambini guardano la vetrina della pasticceria o del negozio di giocattoli, con languore e desiderio. La libertà non è “il volo di un moscone” ma forse è stare con gli amici quando e come si vuole, partire per un viaggio, scegliere. O magari aveva ragione quella tizia in miniatura seduta su quella micro-seggiola di vimini: libertà è essere nel posto esatto in cui desideri. E oggi, come allora, mi scopro libera-
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica -29 aprile 2017 -

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