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mercoledì 31 maggio 2017

Lo Sapevate Che: Che cosa ci possono insegnare i transgender...



Mi Chiama Donata ormai da molti anni e, fra le altre cose, sono meteoropatica, appassionata di botanica, piccola imprenditrice, transgender, cinica e parecchio stanca. Il fatto è che con gli anni, ora ne ho 62, si è incrinata fatalmente quella forza che pensavo invincibile che mi ha permesso di sopravvivere e di avvicinarmi il più possibile all’idea che avevo di me e di quella che volevo fosse la mia piccola felicità. Le scrivo, prima di deporre le armi, esausta e sconfitta, non per essere consolata, ma perché il dubbio che mi è venuto è che la mia questione sia addirittura filosofica ancora prima che privata. Da giovane, pur essendo “piacente”. Ho rifiutato quella professione che non mi apparteneva, seguendo una mia vocazione per la cosiddetta normalità, lo studio, le piante e i fiori. Ma il mondo ha sempre preteso da me sensualità, eccentricità, mistero, come se il mio corpo parlasse un linguaggio potentissimo e fuori dal mio controllo, molto più eloquente a quanto pare del mio pensiero, dei miei valori e della persona alla fine banale che sono. Sono stanca di dimostrare e di dover essere autoironica anche quando il pregiudizio, mi ammazza. Ecco, lei che hai studiato, mi dica: l’istinto di conservazione della specie è una cosa troppo grande perché una trans possa pretendere di vivere tranquilla senza rappresentare una minaccia cosmica? C’è una forza universale che cospira contro la diversità? Se mi abbandonassi, ora, come uno scherzo della natura, dimenticando discorsi di dignità e realizzazione, l’umanità avrebbe pietà di me? E mi tratterebbe meglio? Le regalo un giglio, anche solo per il tempo che ha impiegato a leggermi. Grazie.    Donata/Gionata gionata5555@libero.it

I Transgender, Che la nostra cultura, nonostante la sua proclamata (ma solo proclamata) laicità, ha sempre tenuto ai margini, meritano di essere posti al centro del discorso, se non altro per capire, dai segni che espongono e i simboli che rinviano a un’ulteriorità di senso, se alle volte non stanno annunciando un futuro che riguarda tutti. Mi riferisco all’oltrepassamento dell’identità sessuale fissata nella differenza tra maschile e femminile, nonostante da tempo biologia e psicologia ci dicono che nessuno è per natura relegato in un sesso, visto che l’ambivalenza sessuale, l’attività e la passività, sono iscritte come differenze nel corpo di ogni soggetto e non come termine assoluto legato a un determinato organo sessuale. Ciò nonostante ciascuno tende a rimuovere la sua originaria ambivalenza erogena, per consegnarsi alla sua anatomia: così può essere accolto senza fraintendimenti nell’ordine sociale. Lei ha rispettato la sua ambivalenza e per questo ha dovuto, come dice, dimostrare, giustificare, dissimulare, sopportare il pregiudizio, quando non la segregazione, spesso non manifesta perché mascherata da una falsa e ipocrita accettazione (..). Oggi, nell’epoca della tecnica, che solo gli ingenui pensano che sia ancora uno strumento nelle mani dell’uomo, quando invece è il nostro mondo che decide anche il nostro modo di essere al mondo, la realtà tende sempre meno a ospitare l’antica differenza tra “natura” e “artificio”. Infatti se il mondo che abitiamo è per intero “costruito”, solo un ritardo linguistico può chiamare l’aspetto con cui oggi le persone si presentano e le scene del mondo che abitiamo “artificiali” tenendole distinte da quelle “naturali”. L’idea di natura, che la tecnica ha ridotto a semplice materia prima, ha cessato da tempo di valere come un referente. A questo punto il corpo del transgender non è una deviazione, ma una conferma della caduta di questo referente. E dove non c’è referente, non c’è una norma, misura, orizzonte, identità da salvaguardare, differenze da mantenere come accade quando la natura (espressione della specie che ha in vista unicamente la procreazione) è assunta a norma, con conseguente limitazione della libertà espressiva di ciascun individuo. Il transgender, rifiutando di assumere il sesso come segno distintivo della sua identità personale, apre quel ventaglio di scelte che gli individui possono fare per sentirsi a casa nel loro corpo, nel rispetto dell’ambivalenza che caratterizza ognuno di noi, e che ognuno di noi tende a misconoscere per garantirsi l’accettazione sociale.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 20 maggio 2017 -

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