(11 luglio 1915, Vladivostock, Russia – 10 Ottobre 1985, New York City,
USA)
Non ha avuto la strada spianata nel mondo del cinema Yul Borisovitch Bryner
(poi Yul Brynner). Appena 13enne inizia la carriera come artista giramondo:
trapezista per un circo a Parigi, dove riporta gravi ferite in un incidente.
Poi uomo di fatica in teatro e studente senza alcun pallino per i libri
all’università della Sorbona.
Presto si lascia alle spalle l’Europa però, ed è una scelta che si rivelerà
vincente già a partire dal 1940, quando, sbarcato negli Stati Uniti con la
compagnia teatrale di Michail Aleksandrovič Čechov, trova lavoro
nella macchina della propaganda bellica per la Seconda Guerra Mondiale e
guadagna sul campo la cittadinanza americana, da aggiungere a quella
russo-tzigana. Sono gli anni in cui comincia anche a calcare i palcoscenici di
Broadway e a mietere i primi consensi, come quello ottenuto con “Lute Song”
(1946) o con la sua prima apparizione cinematografica ne “Il porto di New
York” (1949) di Lazlo Benedek.
Sarà tuttavia una scelta tanto efficace quanto minima a lanciarlo
definitivamente sulla ribalta dello show-business dell’epoca: in occasione dell’interpretazione
a teatro dell’operetta “Il re ed io” (1951) di Rodgers &
Hammerstein, Yul Brynner prende la decisione che gli cambia la carriera, si
rasa la chioma a zero. La bravura del cast e la fortuna della pièce porta
allora il regista Walter Lang a girarne una versione cinematografica nel 1956
che, con lo stesso titolo e lo stesso attore protagonista, ottiene un enorme
successo anche dal pubblico del grande schermo e – soprattutto – il
riconoscimento dell’Academy di Hollywood che consacra Yul Brynner,
attribuendogli l’Oscar come miglior attore. È il giorno del tripudio per
il fascinoso russo-tzigano, la cui faccia si trasforma in fretta in una specie
di icona del cinema, guadagnandosi la fama di bel tenebroso.
Ruoli sempre di maggior statura lo trasformano velocemente in una leggenda
Yul Brynner diventa anche l’attore dei grandi kolossal hollywoodiani grazie
a due personaggi in particolare: quello di un Ramsete rigorosamente calvo ne “I
dieci comandamenti“ (1956, regia di Cecil B. DeMille), e quello del re
Salomone in “Salomone e la regina di Saba” di King Vidor (1959), dove
sostituisce Tyron Power, deceduto durante le riprese, e recita accanto a una
splendida Gina Lollobrigida.
Sebbene gli anni della massima grandezza di Brynner si possano ridurre
sostanzialmente al quinquennio che va dal 1955 al 1960, la frenesia della
Hollywood di quel periodo, così intenta a “battere il ferro” dell’attore in
ascesa finché fosse caldo, portò al cinema altri grandi film che videro Yul
offrire prove d’attore memorabili. Ancora del 1956 è la sua bella interpretazione
del principe di "Anastasia" (regia di Anatole Litvac), vicino
all’intensa presenza di Ingrid Bergman, mentre nel 1958
porta un po’ di luce sopra il mediocre “Karamazov” di Richard Brooks e poi
torna sul set con due commedie di medio livello, "Ancora una volta con
sentimento" e "Pacco a sorpresa", entrambe del 1960 e dirette da
Stanley Donen.
È sempre del 1960 quello che il pubblico ha dichiarato come il capolavoro
di Yul Brynner, interprete del pistolero dall’animo nobile de "I
magnifici sette" (1960) di John Sturges, insieme ad un cast di calibro
pressoché irripetibile (Charles Bronson, James Coburn, Robert
Vaughn, Eli Wallach, Brad Dexter, Horst
Buchholz e Steve McQueen).
Una seconda giovinezza nella fantascienza
Passata l’epoca dei kolossal storici e dei film in costume, Yul Brynner
intraprende lentamente il viale del tramonto, ma non senza centrare alcune
partecipazioni importanti e senza comunque lasciare mai il filone dei film
d’avventura. E così, dopo "Taras, il magnifico" (1962), con Tony Curtis, e il buon risultato
di "Invito a una sparatoria" (1964, regia di Richard Wilson) e dopo
un film di guerra girato con lo jugoslavo Veljco Bulajic (“La battaglia della
Neretva”, 1969) insieme alla nostra Sylva Koscina, le ultime cartucce buone il
Nostro le spara – è proprio il caso di dirlo – grazie ad alcuni film di
fantascienza e a un gangster movie. Ecco infatti lo Yul Brynner, pistolero
buono dei magnifici sette, diventare prima un cow-boy androide, nero e
spietato, per "Il mondo dei robot" (1973) di Michael Crichton
e poi tornare eroe positivo –ma sempre androide – nel meno fortunato sequel
“Futureworld - 2000 anni nel futuro” (1976, regia di Richard T. Heffron) e
recitare con Max von Sydow in un’ipotetica
terra post-conflitto atomico ne "Gli avventurieri del pianeta Terra"
(1975) di Robert Clouse.
Nell’ultima pellicola che intendiamo citare, l’attore viene affiliato a
Cosa Nostra e si trasforma in un killer della mafia: era il 1976 e Brynner
recita in “La rabbia agli occhi” (regia di Anthony M. Dawson) con
Barbara Bouchet e Massimo Ranieri.
Segni di un declino irreversibile? Probabile. Certo è che la carriera di
Yul Brynner finisce purtroppo nel 1983, quando gli viene diagnosticato un
cancro ai polmoni che lo porta alla morte il 10 ottobre del 1985 a New York,
non prima di realizzare il suo ultimo lavoro, appena cinque anni prima: "Lost
to the Revolution".
Prima di lasciare il suo pubblico un’ultima sentita interpretazione:
l'attore registra una violenta invettiva diretta al vizio del fumo, causa della
sua malattia, che andrà in onda per sua volontà postumo, come spot contro le
compagnie di tabacco. Corrado Fontana
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