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domenica 1 dicembre 2013

Lo Sapevate Che: Carta Canta...


L’Uomo Senza Dignità

Alfano prese parte alla marcia sul Tribunale di Milano. Eppure è diventato ministro dell’Interno e anche vicepremier. Poi si è dimesso. E alla fine è rimasto al suo posto. Sempre seguendo le istruzioni di Silvio Berlusconi

Tra le maschere truci del berlusconismo crepuscolare, l’unica che non ha nulla di tragico, e nemmeno di serio, è quella di Angelino Alfano. L’altro giorno, quando il Pdl ha annunciato la gazzarra contro la decadenza di Berlusconi, l’avvocaticchio agrigentino, recordman mondiale nella produzione di leggi incostituzionali: “, si è dissociato: “ Noi in piazza non andiamo, guardiamo al futuro e all’Italia, abbiamo fatto una scelta diversa”.Sarebbe interessante sapere quando, perché e dopo quante notti insonni quest’uomo dalla fronte inutilmente spaziosa – come direbbe Fortebraccio – abbia maturati tali rocciose convinzioni. Soltanto l’11 marzo, tre settimane dopo le elezioni politiche, l’Alfano capitanava la marcia sul tribunale di Milano degli oltre 150 parlamentari neoeletti nel Pdl, contro i giudici che avevano osato disporre la visita fiscale per verificare il “legittimo impedimento” di Berlusconi, dato per moribondo a causa di un’uveite (congiuntivite).
L’Illustre Statista raggiunse la scalinata del Palazzo di Giustizia scortato dalla nota moderata Alessandra Mussolini, avvolta in una bandiera tricolore. Erano con lui tutte le colombe che avrebbero presto dato vita al Nuovo Centro-destra einaudiano e degasperiano: Schifani, Lupi, Cicchitto, Quagliarello, Formigoni. Tutti a cantare l’Inno di Mameli con la Santanchè, Bondi e Capezzone. Durante le foto di rito, l’Alfano tentò di assumere una posa ieratica e marziale, scimmiottando come meglio riusciva il finale de “Il Caimano” di Moretti, ma nemmeno quella volta riuscì a farsi prendere sul serio. Alla fine il fiero condottiero, sprezzante del pericolo, guidò le truppe a un passo dalla vittoria finale con l’assalto al quarto piano, fino all’aula della IV sezione dove si celebrava il processo Ruby e i giudici valutavano l’impedimento oculistico dell’imputato. Purtroppo il pm Ilda Boccassini fece chiudere l’aula e gli occupanti restarono fuori.
La ginnica prestazione valse ad Angelino l’apprezzamento di Napolitano e Letta jr-, che lo promossero ministro dell’Interno e pure vicepremier. Lui, moderato per indole e dunque allergico alla piazza, l’11 maggio era dinuovo in piazza con il resto della colombaia: Lupi, Quagliarello & C. Stavolta a Brescia, dove il Caimano sognava di traslocare i suoi processi. Dal palco Berlusconi insultò i giudici, si paragonò a Tortora. E Alfano sotto a spellarsi le mani.
L’Indomani, sul pulmino che li portava alla scampagnata ministeriale fuori porta in un’abbazia toscana, il premier Nipote lo strapazzò: “Un’altra Brescia e mi dimetto”. Ma lui ribattè tetragono: “Noi continueremo a difendere il nostro leader, gIi aggrediti siamo noi”. Ai primi di luglio, poco prima della sentenza in Cassazione sul caso Mediaset, Angelino colombino salì al Quirinale  per supplicare Napolitano di nominare il suo capo senatore a vita. La risposta fu picche. Un mese dopo rieccolo al Meeting di Cl a Rimini: “Chiediamo che il Pd rifletta, astraendosi dalla storica inimicizia di questi vent’anni, sulla opportunità di votare no alla decadenza del Cavaliere”. E. per meglio acclimatarsi, paragonò Berlusconi a Gesù: “L’esempio di Cristo testimonia l’esigenza di un giusto processo e la pericolosità di certe giurie popolari”.
Il 24 agosto, al Gran Consiglio di Arcore, era invitato in veste di segretario, cioè di megafono. Infatti alla fine gli diedero da leggere un comunicato. E lui lo declamò da par suo: “La decadenza di Silvio Berlusconi da senatore è impensabile. Tutti insieme rivolgeremo alle massime istituzioni della Repubblica (Napolitano, ndr.), al primo ministro e ai partiti che compongono la maggioranza, parole chiare sulla questione democratica che dev’essere affrontata per garantire il diritto alla piena rappresentanza politica e istituzionale dei milioni di elettori che hanno scelto Berlusconi”. Lo stesso accadde il 28 settembre, quando il padrone ordinò ai ministri di dimettersi dal governo, e lui modestamente si dimise. Poi gli fu detto di restare, e lui restò. Che amore.

Marco Travaglio – L’Espresso – 5 dicembre 2013

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