L’Uomo Senza Dignità
Alfano prese parte alla
marcia sul Tribunale di Milano. Eppure è diventato ministro dell’Interno e
anche vicepremier. Poi si è dimesso. E alla fine è rimasto al suo posto. Sempre
seguendo le istruzioni di Silvio Berlusconi
Tra le maschere truci del berlusconismo crepuscolare, l’unica
che non ha nulla di tragico, e nemmeno di serio, è quella di Angelino Alfano.
L’altro giorno, quando il Pdl ha annunciato la gazzarra contro la decadenza di
Berlusconi, l’avvocaticchio agrigentino, recordman mondiale nella produzione di
leggi incostituzionali: “, si è dissociato: “ Noi in piazza non andiamo,
guardiamo al futuro e all’Italia, abbiamo fatto una scelta diversa”.Sarebbe
interessante sapere quando, perché e dopo quante notti insonni quest’uomo dalla
fronte inutilmente spaziosa – come direbbe Fortebraccio – abbia maturati tali
rocciose convinzioni. Soltanto l’11 marzo, tre settimane dopo le elezioni
politiche, l’Alfano capitanava la marcia sul tribunale di Milano degli oltre
150 parlamentari neoeletti nel Pdl, contro i giudici che avevano osato disporre
la visita fiscale per verificare il “legittimo impedimento” di Berlusconi, dato
per moribondo a causa di un’uveite (congiuntivite).
L’Illustre Statista raggiunse la scalinata del Palazzo
di Giustizia scortato dalla nota moderata Alessandra Mussolini, avvolta in una
bandiera tricolore. Erano con lui tutte le colombe che avrebbero presto dato
vita al Nuovo Centro-destra einaudiano e degasperiano: Schifani, Lupi,
Cicchitto, Quagliarello, Formigoni. Tutti a cantare l’Inno di Mameli con la
Santanchè, Bondi e Capezzone. Durante le foto di rito, l’Alfano tentò di
assumere una posa ieratica e marziale, scimmiottando come meglio riusciva il
finale de “Il Caimano” di Moretti, ma nemmeno quella volta riuscì a farsi
prendere sul serio. Alla fine il fiero condottiero, sprezzante del pericolo,
guidò le truppe a un passo dalla vittoria finale con l’assalto al quarto piano,
fino all’aula della IV sezione dove si celebrava il processo Ruby e i giudici valutavano
l’impedimento oculistico dell’imputato. Purtroppo il pm Ilda Boccassini fece
chiudere l’aula e gli occupanti restarono fuori.
La ginnica prestazione valse ad Angelino l’apprezzamento di
Napolitano e Letta jr-, che lo promossero ministro dell’Interno e pure
vicepremier. Lui, moderato per indole e dunque allergico alla piazza, l’11
maggio era dinuovo in piazza con il resto della colombaia: Lupi, Quagliarello
& C. Stavolta a Brescia, dove il Caimano sognava di traslocare i suoi
processi. Dal palco Berlusconi insultò i giudici, si paragonò a Tortora. E
Alfano sotto a spellarsi le mani.
L’Indomani, sul pulmino che li portava alla
scampagnata ministeriale fuori porta in un’abbazia toscana, il premier Nipote
lo strapazzò: “Un’altra Brescia e mi dimetto”. Ma lui ribattè tetragono: “Noi
continueremo a difendere il nostro leader, gIi aggrediti siamo noi”. Ai primi
di luglio, poco prima della sentenza in Cassazione sul caso Mediaset, Angelino
colombino salì al Quirinale per
supplicare Napolitano di nominare il suo capo senatore a vita. La risposta fu
picche. Un mese dopo rieccolo al Meeting di Cl a Rimini: “Chiediamo che il Pd
rifletta, astraendosi dalla storica inimicizia di questi vent’anni, sulla
opportunità di votare no alla decadenza del Cavaliere”. E. per meglio
acclimatarsi, paragonò Berlusconi a Gesù: “L’esempio di Cristo testimonia
l’esigenza di un giusto processo e la pericolosità di certe giurie popolari”.
Il 24 agosto, al Gran Consiglio di Arcore, era invitato in
veste di segretario, cioè di megafono. Infatti alla fine gli diedero da leggere
un comunicato. E lui lo declamò da par suo: “La decadenza di Silvio Berlusconi
da senatore è impensabile. Tutti insieme rivolgeremo alle massime istituzioni
della Repubblica (Napolitano, ndr.), al primo ministro e ai partiti che
compongono la maggioranza, parole chiare sulla questione democratica che
dev’essere affrontata per garantire il diritto alla piena rappresentanza
politica e istituzionale dei milioni di elettori che hanno scelto Berlusconi”.
Lo stesso accadde il 28 settembre, quando il padrone ordinò ai ministri di
dimettersi dal governo, e lui modestamente si dimise. Poi gli fu detto di
restare, e lui restò. Che amore.
Marco Travaglio – L’Espresso – 5 dicembre 2013
Nessun commento:
Posta un commento