Finalmente si potrà
vedere in Italia il film sulla filosofia.
Un’intellettuale ne dà
una sua lettura personale. Al centro:
la capacità di giudizio
Si potrà finalmente
vedere anche in Italia il film di Margareth Von Trotta “ Hannah Arendt”.
Ne parlo perché l’incontro con la studiosa tedesca per me è stato fondamentale.
Quando si cercano risposte a eventi che sfuggono a un’immediata comprensione razionale, è di
grande sollievo imbattersi in un pensiero così potente e radicale da aprirti la
mente e farti scorgere i tratti di qualcosa che, per quanto impressionante, ha
comunque sue ragioni e forma. E’ quanto accadde a me incontrando l’Hannah
Arendt de “Le origini del totalitarismo”m mentre ero alla ricerca dei perché
degli errori del comunismo, ma consapevole che quelle domande dovevano
coinvolgere un fenomeno più ampio e quindi l’esperienza del nazionalsocialismo
e la Shoah.
Lo scienziato politico tedesco Carl Joachin Friedrich, autore
di lavori fondamentali sul totalitarismo, aveva indirettamente contestato
l’analisi di Arendt riferendosi criticamente a interpretazioni “essenzialiste“.
Eppure, quella scoperta dell’essenza della pretesa totalitaria sull’uomo ebbe
su di me una presa fortissima : “I campi di concentramento e di sterminio”,
scriveva Arendt, “servono al regime totalitario, oltre che a sterminare, a
compiere l’orrendo esperimento di (…) trasformare l’uomo in un oggetto”. Questa
radicale messa a nudo dell’obiettivo totalitario costituì per me una chiave di
lettura per gli scritti dei sopravvissuti, come Primo Levi ed Elie Wiesel. Ma
quell’interpretazione mi guidò anche nella lettura di un testo meno conosciuto,
“Il racconto di Peuw bambina cambogiana”, nel quale si ripercorreva
l’annientamento e fisico della popolazione della Cambogia durante il regime di
Pol Pot, nell’indifferenza dell’Occidente e dei suoi intellettuali progressisti. In
questi racconti quanto spiegato da Arendt
appare in tutta la sua tragicità: la riduzione dell’essere umano agli
istinti primordiali, legati alla sopravvivenza fisica, con la perdita dei
sentimenti considerati più umani, come l’amore e la protezione dei propri cari.
“Le origini del totalitarismo” mi preparò ad affrontare “La
banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963), e le violente polemiche che
avevano accompagnato l’uscita del libro, scaturito dagli articoli scritti per
il “New Yorker” in occasione del processo intentato dagli israeliani
all’artefice della macchina che aveva condotto milioni di ebrei alla loro
destinazione di morte, Adolf Eichmann. Lisi Non rimasi scandalizzata né dalla
dura analisi del ruolo giocato dai capi delle comunità ebraiche nella macchina
dello sterminio, né dalla ben più significativa interpretazione dell’uomo
Eichmann.
In merito al primo punto, le osservazioni della studiosa
erano in parte debitrici de “La distruzione degli Ebrei d’Europa” dello storico
Raul Hilberg, che aveva messo in luce i meccanismi dello sterminio, mostrando
omissioni, complicità e atti che avevano talvolta inceppato il meccanismo. D’altro
canto, già in “Le origini del totalitarismo” l’ebrea Arendt aveva scritto
parole forti sulle responsabilità ebraiche nello sviluppo dell’antisemitismo,
anche se in nome di una disincantata lettura dei processi storici, non della
volontà di addossare colpe alle vittime.
Quell’approccio meglio comprensibile attraverso il concetto
di azione così come sviluppato in “The Human Condition” e inteso – ricorda
Simona Forti in “Hannah Arendt tra filosofia e politica” – che rende possibile
pensare l’uomo come un essere libero e non prigioniero della naturalità
dell’eterno ciclo del nascere e morire. Nonché attraverso l’importanza
attribuita in una fase del suo pensiero all’idea Kantiana della capacità
dell’individuo di darsi leggi universali. Così si può interpretare l’attenzione
rivolta all’acquiescenza dei responsabili delle comunità ebraiche : un’analisi
non sempre adeguatamente corroborata, ma onesta nel ricercare le ragioni
dell’efficace del processo dello sterminio, e una valutazione che non ogni
scelta è obbligata, perché all’uomo è consentito agire – anche se a rischio
della vita – seguendo ciò che giudica giusto (Forti ricorda come in Arendt il
giudizio rappresenti un luogo di resistenza nei confronti dell’esistente che in
tempi di emergenza può farsi azione).
Queste riflessioni ci rendono intelligibile anche la lettura
che Hannah Arendt diede di Eichmann. Non un sadico o un mostro, ma un uomo
mediocre che, collocato in un universo dove i principi della nostra civiltà
erano stati sovvertiti, aveva rinunciato alla propria capacità di giudizio, ponendo nell’obbedienza
al Fuhrer la guida per i propri comportamenti e considerando l’ascolto della
propria coscienza un atto di debolezza e una tentazione dalla quale rifuggire. Una
realtà, questa, molto più sconvolgente e meno rassicurante di quella di un uomo
che diviene mostro e può perciò essere concepito come altro da sé.
Vedere nel film di Margareth Von Trotta gli anni vissuti da
Hannah Arendt durante il processo Eichmann e dopo, alle prese con tanti
attacchi provenienti da più parti, è un’esperienza importante. Von Trotta ha
restituito l’immagine di una donna dotata non solo di grande rigore e spessore
intellettuale, ma anche di grande coraggio, capace di affrontare dubbi,
dolorose rotture e sofferenze personali pur di non rinunciare a raccontare il
mondo così come lo vedeva attraverso la propria mente. Per amore del mondo.
Sofia Ventura – L’Espresso -26 dicembre 2013
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