Quando La Fame E’ Bisogno D’Amore
Spesso, prima di essere un disordine del
corpo, la bulimia è un disordine della mente che non riconosce ciò di cui
abbiamo davvero bisogno
Vive
nel mio grembo. Respira col mio respiro.
Alimenta il mio dolore. Succhia la mia anima. E’ la mia ombra. La mia
bestia nel cuore. E’ nata tre anni fa, agli inizi dell’adolescenza e è maturata
dentro di me, senza allentare la presa sul mio cuore, nemmeno per un minuto, La
mia bestia si chiama Fame d’amore. Passa inosservata, emerge quando sono sola,
quando non mi devo difendere dagli occhi altrui. Lei è cieca, scambia il cibo
per l’amore, scambia un biscotto per un abbraccio, un cioccolatino per un
bacio. Dei giorni dorme, ma mai più di una settimana, torna sempre facendosi
sentire con un peso opprimente e schiacciante sul petto. Si risveglia ancora
più affamata, ancora più cieca, più impulsiva e animalesca. Quando è nata
sembrava innocua, senza canini né artigli, era dolce e sembrava darmi conforto.
Lei mi capiva, lei i ascoltava. Poi senza che me ne potessi accorgere ha
cominciato a crescere rubandomi l’ossigeno necessario per vivere,
condizionandomi la vita, cambiandola radicalmente. Ci sono giorni buoni e
giorni cattivi, ma non miglioramenti decisivi. Della mia malattia lo sanno in
pochi, qualche amica e i familiari che sembrano far finta di niente. Alle volte
li guardo e vedo riflessa nei loro occhi l’immagine di una stupida e debole,
nemmeno in grado di imporsi su se stessa. Non sono fiera del mio problema come
lo sono gli anoressici. Lo nascondo dentro di me, giù nelle profondità più buie
del mio inconscio. Sono sola, veramente sola in questa lotta. Dal di fuori
nessuno sospetta, nessuno sa, nessuno si preoccupa. Non vedono i polsi ossuti,
il viso scarno che suscita compassione. Vedono un viso ovale, sano, sorridente
e non possono immaginare che dietro quel sorriso si possa nascondere un’orrenda
verità. Non voglio arrendermi, non voglo lasciarmi andare, combatterò perché
non voglio che la mia vita si riduca a questo. Vorrei che le persone sapessero
di questo problema del quale soffrono milioni di donne. E un problema della
società, dove il cibo ha perso la sua funzione puramente materiale ed è
diventato espressione di sentimenti. Concludo con un saluto caloroso a tutte
quelle ragazze e donne che come me soffrono di disordini alimentari.
Chiara
e la sua ombra
Penso che lei abbia già trovato la via
d’uscita dalla sua malattia dandole quel nome che è “fame d’amore”. La descrive
come una creatura che la abita, dapprima innocua e senza artigli, poi sempre
più famelica e ossessiva, le concede qualche giorno di tregua, senza però
alimentare alcuna speranza in ordine a un suo congedo definitivo. E per quello
strano gioco che la nostra psiche non ignora, lei , mentre divora qualsiasi
alimento le capita sotto mano, ne è divorata.
Dalla sua descrizione, così efficace,
lei fa tutt’uno con la sua “bestia nel cuore”, ma già averle dato per sede il
cuore potrebbe darle quel cibo giusto, e non sostitutivo, di cui la sua bestia
è affamata.
Il fatto che, come lei dice “nessuno
sospetta” vedendo il suo “viso ovale, sano, sorridente” vuol dire che il suo
corpo non ha ancora assunto quelle dimensioni che le impediscono un incontro
d’amore. E se appena lei riuscisse a
distogliere lo sguardo dalla sua ossessione alimentare, per rivolgerlo alla
raffinatezza non comune del suo sentimento, quale traspare da come descrive
l’ospite che la divora, l’incontro d’amore penso non possa tardare, e per giunta
nella forma con cui lei l’ha già prefigurato, quando descrive il suo modo di
accostare i cibo con quella carica di sensualità che di solito si riscontra
quando si accosta il corpo dell’altro per i giochi d’amore.
Non è il caso di “imporsi su se stessa”,
come lei dice, dando di sé l’immagine di “stupida e debole”. Con la propria
ombra non si deve fare la guerra, perché di solito vince l’ombra, come i suoi
giorni di sofferenza le hanno già dimostrato. Con l’ombra, dopo averla
riconosciuta, si fa la pace, si stringe un’amicizia, ed è allora che “la
bestia”, come lei la chiama, ritira i suoi artigli e, da “cieca” che non
distingue di che cosa si deve alimentare, la aiuta a non far confusione intorno
a ciò di cui ha davvero bisogno. Quel che le posso dire è di uscire dalla sua
solitudine e dalla guerra con se stessa, per incontrare quel nutrimento buono
che, più del cibo, è il vero sostentamento della vita, e che lei ha già
riconosciuto e chiamato col suo nome.
umbertogalimerti@repubblica.it
– Donna di Repubblica 29-6-13
Nessun commento:
Posta un commento