Che cosa serve davvero per fermare gli
uomini che uccidono le donne
Ho 82 anni, ne avevo 18 quando mi
fidanzai con una mia coetanea, bella al punto da risultare seconda a un
concorso di Miss Campania. Ci iscrivemmo all’università, lei in giurisprudenza,
io in filosofia. Per due anni fui felice, studiavamo a casa mia o a casa sua e conseguivamo anche trenta e lode.
Un brutto giorno, “Perdonami, mi sono innamorata di un altro, ma tu rimarrai
sempre il mio miglior amico”. Caddi in una profonda depressione e abbandonai
gli studi. Vederla poi spesso in strada teneramente abbracciata a quell’uomo,
peraltro più anziano di lei di dodici anni, rappresentava per me una pugnalata
sempre più profonda. Non pensai mai a un atto efferato nei suoi confronti, ma
l’idea del suicidio mi assillava. Per me la vita non aveva più senso. Per
fortuna conobbi una ragazza di cui mi innamorai e che diventò mia moglie e che
ora non c’è più, dopo 52 anni di matrimonio. Ho avuto quattro figli e sono
stato felice, ma ho vissuto sempre col terrore dell’abbandono. A ogni screzio
mi assaliva il panico.
Le
racconto questa storia dopo aver appreso che ben 115 donne sono state uccise
tra le mura domestiche. Quale brutale sentimento scatta nell’animo dell’uomo
allorché si profila lo spettro dell’abbandono? Ricordo che Tolstoj in La sonata a Kreutzer descrive come il
protagonista uccida la moglie quando legge negli occhi di lei non la paura o lo
sgomento, bensì il fastidio di essere stata disturbata nel suo momento di
estasi. Vedere o anche apprendere che la propria donna è felice nelle braccia
di un altro, scatena nell’uomo una rabbia belluina che può portare a un gesto
efferato o a un’inguaribile depressione. Non mancano esempi di uomini illustri
che a causa di un abbandono sono finiti per anni dallo psichiatra.
La
legge che punisce questi delitti può anche trovare delle attenuanti generiche,
ma non può accampare come alibi l’esasperazione dei sentimenti. Bertrand
Russell ha scritto: “Tutti abbiamo
diritto alla felicità, ma non a spese degli altri”. Forse c’è bisogno di una
nuova educazione sentimentale, l’inasprimento delle pene non serve!
Lettera
formata – Salerno
La depressione sarà una sofferenza,
andare dallo psichiatra forse una spesa che non tutti possono concedersi: ma
comunque meglio che ammazzare, le pare? Mi chiedo sempre se quando un uomo,
purtroppo più uomini, arrivano a uccidere la donna che dicono di amare perché
li ha traditi o anche solo lasciati, sia per il bisogno di possesso o perché
non sanno affrontare il dolore. In tutti i due casi, l’uomo esprime con la
violenza un’immensa fragilità. Non credo si possano trovare attenuanti a questi
delitti , ma forse ha ragione lei, l’inasprimento delle pene è sì una punizione
giusta, ma non impedirà altri gesti simili. Che è invece quello che dobbiamo
ottenere: sempre meno donne ammazzate “per amore”, sempre meno uomini incapaci
di accettare una perdita, una ferita, quando si tratta di rapporti affettivi.
Non capisco a cosa lei si riferisca citando la frase di Russell: un uomo è
felice ammazzando la sua donna? La donna non dovrebbe cercare la felicità a
spese del suo uomo? Lei da giovane ha sfiorato il suicidio, l’ha fortunatamente
evitato, e la sua vita poi è stata piena d’amore. Quanto a una nuova
educazione, certo è necessaria, al di là di quella sentimentale: è di maggior
civiltà che abbiamo bisogno.
Natalia Aspesi – Venerdì di Repubblica –
12-7-13
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