L’emozione Vera Non E’ Nelle Cose
Marx scriveva: “Tutto ciò che è solido
si dissolve nell’aria”. L’effetto “buono” della crisi sarebbe ritrovare la
capacità di innamorarsi delle persone, e non più solo degli oggetti
Viviamo
ancora nell’epoca delle emozioni a entropia crescente, caratterizzata dalla
dissipazione spensierata dell’energia per dare alimento a un sistema economico
oggi in crisi. Ma proprio la crisi obbliga i consumatori a riappropriarsi di
una razionalità smarrita, e a dare la priorità a spese ineludibili rispetto a
quelle superflue, che però contribuivano a tenere in piedi il castello di carte
di un’economia drogata. L’apice di questa follia epocale può essere ben
simboleggiato da quei pupazzi che si muovono, abbaiano o cantano che, una volta
tornati a casa dall’ennesimo viaggio di lavoro, strappavano un sorriso – due
no, ma uno sì – ai nostri bambini, e con i quali ci illudevamo di lenire la
loro ansia di abbandono. Li avevamo così abituati al rito del gadget usa e
getta che, se ci presentavamo a mani vuote, la loro delusione ci suscitava
qualche perplessità sul senso della nostra vita.
Un
senso dominato dall’acquisizione compulsiva che,in virtù delle emozioni che
evoca, assurge a bisogno primario.
Con
la crisi occorre tornare ad apprezzare le emozioni a bassa entropia, quelle che
ci danno non macchine sempre più veloci o limoni che vengono dal Cile, che
bruciano tonnellate di carburante e inquinano l’atmosfera, ma un ritrovato e
sano rapporto con la natura, nonché la coltivazione di rapporti umani
trascurati da troppo tempo e la rivalutazione dell’amore come forza aggregante.
Emarginarsi dallo shopping per trovare altre fonti di emozioni non solo è
possibile ma è diventato vitale.
Giuseppe
Iardella
Senza emozioni non si può vivere, perché
le emozioni sono il fuoco della vita, il fattore che, senza mediazioni
razionali, nella gioia e nel dolore, scuote l’anima e la fa vibrare. Siccome
però le emozioni non esistono in sé, ma solo in relazione al mondo in cui si
vive, man mano che il mondo è diventato mercantile, le emozioni si sono
spostate dalla relazione con le persone, com’era al tempo in cui eravamo più
poveri, al mondo degli oggetti che il mercato non riuscirebbe a vendere se in
qualche modo non suscitassero emozioni.
Onnipotente in questo settore è per
esempio il sistema della moda che, avendo saldato le sue creazioni all’identità
di ciascuno dei suoi prodotti come irresistibile possiamo immaginare sia l’acquisto
dell’identità che desideriamo. E allora, non solo nella moda, ma in tutti i
campi, il mercato esige che non si producano solo merci per soddisfare bisogni.
Ma si producano anche i bisogni per garantire la continuità della produzione
delle merci. E come si fa a produrre il bisogno di una merce di cui non si
sente propriamente il bisogno? E’ sufficiente produrne una capace di suscitare
emozioni, e in ciò la pubblicità è maestra. E senza farsi troppi scrupoli,
allena anche i bambini a emozionarsi davanti a certi dolci o a certi giochi,
consentendo ai genitori di gratificare i loro piccoli con i prodotti
pubblicizzati, che stanno al posto del poco tempo a loro dedicato per
ascoltarli e per incuriosirsi di loro.
Ma il mercato ha contaminato anche la
politica che affida la sua propaganda a operatori di mercato che sappiano
individuare quali promesse, anche se non verranno mai mantenute, possono
emozionare, o quali sentimenti di rivolta, anche se improduttivi qualora non
siano anche propositivi, possono suscitare emozioni, ottenere consenso. Non
parliamo poi delle trasmissioni televisive, che per raggiungere l’effetto
desiderato puntano sull’efficacia dell’impatto emotivo, spesso a scapito del
rispetto delle persone nel caso dei fatti di cronaca, e delle buone argomentazioni
nel caso delle discussioni sui temi politici.
L’ipotesi del nostro lettore è che tra i
tanti mali determinati dal crollo del mercato e dalla povertà crescente, ci sia
come unico bene lo spostamento delle emozioni dall’investimento sulle cose all’investimento
sulle persone. Uno spostamento che ci potrebbe far uscire da quel solipsismo di
massa in cui siamo caduti, a favore di una più intensa comunicazione e una
maggior solidarietà, simile a quella che caratterizzava il vissuto emozionale
delle generazioni che ci hanno preceduto, più povere di cose e più ricche di
valori e di ideali.
Un ritorno al passato non è possibile e
neppure augurabile, ma disinvestire dalle cose per investire sulle persone è
possibile e anche auspicabile. Non avverrà per un impegno collettivo, ma per
necessità. E ciò che avviene per necessità, avviene davvero.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 6-7-13
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