Cleptoneania
Nella metà degli anni '60 sui muri di Londra
apparivano scritte che dicevano "Clapton is God". Erano gli
anni del massimo fulgore virtuosistico di questo talento assoluto della chitarra elettrica,
capace come pochi altri di trasmettere feeling ed emozioni dalla sua sei corde.
Poi è arrivato Jimi Hendrix e
le cose sono cambiate, il ruolo di Eric Clapton, all'interno del Gotha dei
"guitar eroes" è stato scalzato dall'irruenza visionaria dell'indiano
metropolitano Jimi, ma questa è un'altra storia.
Eric Patrick Clapp nasce il 30 marzo 1945 a Ripley,
nel Surrey (Inghilterra). Figlio illegittimo, sono i nonni con cui vive a
regalargli a quattordici anni la prima chitarra.
Subito catturato dal nuovo strumento, fra l'altro elettrificato in definitiva
solo da qualche anno, inizia a riprodurre nota per nota i 78 giri di blues che
circolano per casa.
Nel 1963 fonda il primo gruppo, i
"Roosters", ed è già blues a 24 carati. Pochi mesi dopo è con
"Casey Jones And The Engineers" e poi con gli "Yardbirds",
che lo arruolano al posto di Top Topham. Nei due anni che resta con il gruppo
guadagna l'appellativo "Slowhand" e approfondisce il suono dei
tre King - B.B.,
Freddie e Albert - come quello di Muddy Waters e Robert Johnson.
Nel 1965, dopo l'hit "For your love", viene
chiamato da John Mayall nei
"Bluesbreakers", una proposta che Clapton accetta di corsa, attirato dall'interesse
per il blues lontano dalle tentazioni pop in cui stavano cadendo le altre sue
esperienze musicali. Con John Mayall c'è
solo lo spazio di un album, ma si tratta davvero di un grande album. La ricerca
ansiosa dei compagni ideali lo spinge quello stesso anno a formare i
"Cream" con il batterista Ginger Baker e il bassista Jack Bruce.
Anche nell'approccio decisamente rock di uno dei primi e più influenti
supergruppi della storia del rock, gli standard blues trovano un posto
rilevante: è il caso di "Rollin' and umblin'" di Willie Hambone
Newbern, "Born under a bad sign" di Albert King, "Spoonful"
di Willie Dixon, "I'm so glad" di Skip James e "Crossroads"
di Robert Johnson.
Il successo è enorme, ma forse non viene gestito al
meglio dai tre. Che, travolti dal loro ego gonfiato, presto arrivano a maturare
insanabili dissapori e dunque a sciogliersi già nel 1968.
Di nuovo sul mercato con la sua Fender in
spalla, Clapton è alla ricerca di altri compagni di avventura. Arriva allora un
altro supergruppo, ancora più effimero, con i Blind Faith al fianco di Steve
Winwood, poi la Plastic Ono Band di John Lennon e
la trasferta americana in tour con Delaney & Bonnie. In realtà quello che
passa alla storia come il suo primo album solista ("Eric Clapton",
pubblicato dalla Polydor nel 1970), risente ancora molto dell'esperienza con la
coppia Bramlett, dato che "Slowhand" usa il loro gruppo e scrive
buona parte dei brani con Delaney Bramlett. L'esordio ha un sound R&B
spruzzato di gospel indubbiamente lontano da quello che il musicista ha
proposto fino a quel momento.
Chi pensasse che Eric Clapton, a quel punto, fosse
soddisfatto si sbaglierebbe di grosso. Non solo le collaborazioni e i gruppi a
cui partecipa aumentano in modo vertiginoso, ma deve anche intraprendere una
dura battaglia contro l'eroina, un vizio che lo stava portando alla rovina (per
soddisfare gli spacciatori aveva addirittura impegnato le sue preziose
chitarre).
Sull'orlo della catastrofe ha il buon senso di tirare
i remi in barca e di rimanere fermo per un paio di anni.
Il 13 gennaio 1973 Pete Townshend e
Steve Winwood organizzano un concerto per riportarlo sul palco. Nasce così,
quasi fosse un benefit, l'album "Eric Clapton's Rainbow Concert",
accolto tiepidamente dalla critica dell'epoca. La carriera ad ogni modo riprende
e, nonostante i problemi di droga non siano ancora del tutto accantonati,
arriva per lui un successo enorme, seguito da altri album memorabili. Passata
la sbornia di notorietà e vendite alle stelle, dietro l'angolo però lo aspetta
un altro fallimento, determinato da scelte stilistiche alla lunga non
apprezzate dal pubblico.
Ci riprova nel 1976 con Dylan e The Band:
l'abbinamento funziona e lui torna ad essere la stella che era. Da qui in poi
la strada di "Manolenta" è lastricata d'oro, anche se percorsa dai
soliti alti e bassi. Più bassi che alti, per la verità. Tanto per fare qualche
esempio dischi come "Backless" del 1978, "Another Ticket"
del 1981, "Behind the sun" del 1985, "August" del 1986 e
"Journeyman" del 1989 sono da dimenticare.
Altro discorso per "Money and cigarettes"
del 1983, ma giusto per sentire assieme le chitarre di Eric Clapton e di Ry
Cooder (con l'aggiunta di quella meno nota ma altrettanto abile di Albert Lee).
Dal vivo salta fuori il talento, come dimostra il
doppio "Just one night" del 1980, ma nemmeno il palco è una garanzia
(sentire per credere "24 Nights" del 1991). Il periodo è comunque
ricchissimo di soldi, indossatrici, coca-party e disgrazie (la tragica morte
del figlio di due anni, avuto da una relazione con Lory Del Santo,
a New York).
Arrivano anche le colonne sonore: se
"Homeboy" del 1989 annoia come l'omonimo film con Mickey Rourke,
nel 1992 "Rush" comprende due brani che segnalano che
l'elettroencefalogramma non è piatto: bellissime e indimenticabili sono
"Tears in heaven", ballata autobiografica dedicata al figlio
scomparso, e "Don't know wich way to go" di Willie Dixon in una
versione senza risparmio.
Intanto quello che avrebbe dovuto essere un passaggio
di consegne a Stevie Ray Vaughan non
avviene (Clapton si esibisce con l'altro grande della chitarra proprio
la notte in cui il texano perde la vita in elicottero) e Clapton trova nuovi
stimoli con il disco "Unplugged" del 1992, acustico live per MTV e
rilettura sincera della propria carriera (che in parte restituisce Clapton al
suo primo amore, il blues).
Rincuorato, nel 1994 Eric Clapton entra in studio con
un gruppo fidato e incide in presa diretta (o quasi) una sequenza bruciante di
sedici classici del blues di mostri sacri come Howlin' Wolf, Leroy Carr, Muddy
Waters, Lowell Fulson e altri. Il risultato è il commovente "From the cradle",
virtuale torta con candeline per i suoi trent'anni di carriera. Per quanto
possa sembrare incredibile questo è anche il primo disco di Clapton interamente
e dichiaratamente blues. Il risultato è eccezionale: anche i puristi devono
ricredersi e togliersi il cappello.
Oggi "Slowhand" è una superstar elegante e
plurimiliardaria. Dal blues ha sicuramente ricevuto moltissimo, più della
grande maggioranza di coloro che l'hanno inventato. Ma, almeno indirettamente,
è stato proprio lui a far riscoprire alcuni grandi interpreti della prima ora
che erano caduti nell'oblio. E praticamente tutti i chitarristi bianchi
che suonano blues hanno, prima o poi, dovuto confrontarsi con il suo suono personale
e riconoscibilissimo. Certo la sua discografia non brilla di perle blues e la
sua vita da rockstar non predispone sempre ad una critica benevola. Senza
dubbio però Eric "Slowhand" Clapton il suo posto tra i grandissimi,
se lo merita.
https://biografieonline.it/biografia-eric-clapton
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