LA RESA DELL’ITALIA
Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del 1943, e il
successivo voto di sfiducia contro Mussolini da parte del Gran Consiglio del
Fascismo, avvenuto il 25 dello stesso mese, il re Vittorio Emanuele III fece
arrestare il dittatore e nominò un governo d’emergenza guidato dal Maresciallo
Pietro Badoglio.
Dopo essere fuggito a Bari, sulla costa adriatica, e avervi stabilito la
sede provvisoria del governo, il 3 Settembre 1943 Badoglio firmò un
cessate-il-fuoco con le forze alleate e l’8 settembre successivo annunciò la
resa.
LA REPUBBLICA DI SALÒ
Diversi giorni dopo che gli Italiani si erano arresi agli Alleati, un
commando Tedesco agli ordini del Tenente Colonnello delle SS Otto Skorzeny
liberò Mussolini e lo aiutò a raggiungere Salò, dove egli instaurò la
cosiddetta Repubblica Sociale Italiana, un governo fantoccio di stampo fascista
il cui quartier generale aveva sede nella cittadina sul lago di Garda. Nel
frattempo, le forze armate tedesche occuparono gran parte del Nord Italia e
continuarono a combattere contro gli Alleati e contro i partigiani della
Resistenza insieme alle forze italiane rimaste fedeli al Fascismo, fino al
momento della resa finale, il 2 maggio 1945.
L’ATTENTATO PARTIGIANO
Il 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito
Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP)
guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a
Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.
I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano,
riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era
radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira
- un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di
Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca
provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria,
poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata
sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia,
nel 1943.
Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni
seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti
tra i civili presenti al momento dell’attentato.
LA RAPPRESAGLIA
La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di
Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme
al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale,
Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella
fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione
partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i
condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e
dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante
della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma -
approvò la proposta.
Si racconta che quando a Hitler venne comunicata
la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la
distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del
massacro, dopo la guerra, testimoniarono come
Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di
Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler
abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione
finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del
Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der
Wehrmacht, or OKW).
Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il
Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a
Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del
suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo
l’attentato.
LE VITTIME DELLE FOSSE ARDEATINE
Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e
della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e
del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini,
nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via
Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema
di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in
segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.
Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i
prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri
in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.
Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono
altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri
che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano
semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già
selezionato per il massacro anche 75 prigionieri ebrei, molti dei quali erano
detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota
necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle
vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di
settant’anni, il più giovane quindici.
Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass
si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330
previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5
prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi
decisero di ucciderli insieme agli altri.
L’ECCIDIO ALL’INTERNO DELLE FOSSE
I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le
mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo
dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo
tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati
dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di
spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli
ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle
fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi,
uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.
Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare
le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati
uccisi per non sprecare spazio.
Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del
genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo,
uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo
allo stesso tempo i cadaveri.
I PROCESSI DEL DOPOGUERRA
Dopo la fine della guerra le autorità alleate processarono
alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nel 1945, un tribunale inglese processò il Generale von
Mackensen e il generale Mälzer per la parte avuta nel massacro e
li condannò a morte. Entrambi fecero appello per ridurre la pena e vinsero. Von
Mackensen venne rilasciato nel 1952. Mälzer invece morì in prigione quello
stesso anno.
Nel 1947, un tribunale britannico riunito a Venezia condannò a morte il
Maresciallo Kesselring sia per l’eccidio, sia per aver incoraggiato
l’uccisione di civili. Nel 1952, tuttavia, Kesselring fu graziato.
Nel 1948, un tribunale militare italiano condannò anche
Herbert Kappler all’ergastolo per il ruolo avuto nell’eccidio. Nel
1977, la moglie di Kappler riuscì a far fuggire il marito, malato terminale di
cancro, da un ospedale prigione a Roma e a farlo tornare in Germania. Le
autorità dell’allora Repubblica Federale Tedesca si rifiutarono di estradare
Kappler a causa della sua salute ed egli morì l’anno seguente.
Erich Priebke trascorse i mesi immediatamente successivi alla
fine della guerra prigioniero degli Inglesi, ma riuscì poi a fuggire e a
rifugiarsi in Argentina, dove visse per quasi cinquant’anni da uomo libero. Nel
1994, durante un’intervista con il giornalista dell’ABC, Sam Donaldson, Priebke
parlò apertamente del proprio coinvolgimento nell’eccidio delle Fosse
Ardeatine, dimostrando scarso rimorso per le proprie azioni. La trasmissione
diede nuovo impeto all’azione di alcuni funzionari, sia in Argentina che in
Italia, affinché il caso contro di lui e contro il suo collega e ufficiale delle
SS Karl Hass venisse riaperto. Nel 1995 le autorità giudiziarie
italiane e tedesche collaborarono per facilitare l’estradizione di Priebke in
Italia.
Nonostante alcune udienze preliminari avessero giudicato il reato
prescritto, Priebke e Hass vennero alla fine processati in Italia, nel 1997. Il
tribunale italiano condannò entrambi, Priebke a quindici anni e Hass a dieci,
ma a causa degli anni già trascorsi in prigione, Hass venne liberato subito e
la condanna a Priebke fu ridotta. Priebke e il suo avvocato si appellarono e,
come risultato, la corte d’appello militare italiana iniziò un nuovo processo
nel 1998, al termine del quale Priebke venne condannato all’ergastolo. Quindici
anni più tardi, nell'ottobre del 2013, mentre sta scontando la pena agli arresti
domiciliar, Priebke muore.
IL MONUMENTO
Il luogo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, alla periferia di Roma, è oggi
monumento nazionale in ricordo delle vittime.
https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/ardeatine-caves-massacre
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