Ricordo una cena a New York, all’epoca in cui sembrava
che visitare i templi egizi sul Nilo fosse una vacanza “in”. Ero seduta accanto
a un signore appena rientrato da una di queste vacanze- “Il Faraone Ramesse”, mi
raccontò incredulo, “trascorse tutta la vita preparandosi alla morte”.
Guardandomi attorno, pensai che quella di Ramesse era di certo una scelta più
saggia della nostra, ovvero trascorrere la vita fingendo disperatamente che la
morte non arriverà mai. “Forse gli Egizi non avevano tutti i torti”, dissi. “Mi
sembra piuttosto un grosso abbaglio vivere senza considerare affatto la fine”.
“La morte mi annoia”, ribatté lui con sufficienza, suscitando mormorii di
approvazione. “In Europa centrale hanno delle caffetterie per certe cose: Kaffee mit Schlag, caffè con panna, e
confidenze intime sulla morte e l’aldilà. Certe confessioni hanno un che di
indecoroso. Io non voglio saperne di più”. Eppure diventa sempre più difficile
cambiare argomento, sempre più difficile credere nello splendore degli abiti
dell’imperatore nudo, mentre il prezzo da pagare per il modo in cui definiamo
una vita di successo si fa via via più alto e doloroso. Negli anni Ottanta ho
scritto una biografia di Pablo Picasso. Con l’avanzare dell’età e il lento
approssimarsi della fine, evitare la morte divenne per lui una forza motrice. A
rendergli le cose difficili, come a tutti noi, fu la morte di persone a lui
care. Nel 1963 scomparvero due presenze fondamentali nella lunga vita di
Picasso: il pittore Georges Braque ad agosto e lo scrittore Jean Cocteau in
ottobre. Lui nascose la testa sotto la sabbia e continuò a lavorare. Cos’altro
poteva sconfiggere la morte, se non il lavoro? (..). Nel giudaismo il lutto si
divide in quattro fasi: tre giorni di lutto profondo, sette giorni di shloshim asar chodesh, durante il quale
alcuni rituali proseguono a mo’ di commemorazione. Il cristianesimo,
naturalmente, è basato sull’idea che Gesù si sia sottoposto al rito definitivo
dell’umanità – la morte – e lo abbia superato attraverso la resurrezione. Nel
buddismo invece non esiste un sé distinto separato dal resto dell’esistenza,
perhè la morte coincide semplicemente con la rinascita in un’altra
manifestazione della vita e dell’energia presenti nell’universo. In Occidente,
evitando le conversazioni sulla morte e rendendola quasi un argomento tabù, ci
siamo separati da ciò che la morte può insegnarci. Come ha
scritto il dottor Ira Byock in Dying Well: The Prospect for Growth at the End
of Life (in italiano “Morire bene”. Prospettive di crescita alla fine della vita”): “La nostra
società riserva I suoi massimi elogi alla giovinezza, al vigore e
all’autocontrollo, riconoscendogli una dignità, mentre la loro assenza è
ritenuta indecorosa. I segni fisici della malattia o dell’età avanzata sono
considerati degradanti per l’individuo, e il deteriorarsi del corpo, anziché
essere visto come un processo umano inevitabile, diventa fonte d’imbarazzo”. (traduzione di Matteo Colombo)
Arianna
Huffington – www.huffingtonpost.it–
Donna di Repubblica – 22 agosto 2015 -
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