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martedì 1 settembre 2015

Lo Sapevate Che: Istruzioni per liberarsi dall'ultimo tabù...



Ricordo una cena a New York, all’epoca in cui sembrava che visitare i templi egizi sul Nilo fosse una vacanza “in”. Ero seduta accanto a un signore appena rientrato da una di queste vacanze- “Il Faraone Ramesse”, mi raccontò incredulo, “trascorse tutta la vita preparandosi alla morte”. Guardandomi attorno, pensai che quella di Ramesse era di certo una scelta più saggia della nostra, ovvero trascorrere la vita fingendo disperatamente che la morte non arriverà mai. “Forse gli Egizi non avevano tutti i torti”, dissi. “Mi sembra piuttosto un grosso abbaglio vivere senza considerare affatto la fine”. “La morte mi annoia”, ribatté lui con sufficienza, suscitando mormorii di approvazione. “In Europa centrale hanno delle caffetterie per certe cose: Kaffee mit Schlag, caffè con panna, e confidenze intime sulla morte e l’aldilà. Certe confessioni hanno un che di indecoroso. Io non voglio saperne di più”. Eppure diventa sempre più difficile cambiare argomento, sempre più difficile credere nello splendore degli abiti dell’imperatore nudo, mentre il prezzo da pagare per il modo in cui definiamo una vita di successo si fa via via più alto e doloroso. Negli anni Ottanta ho scritto una biografia di Pablo Picasso. Con l’avanzare dell’età e il lento approssimarsi della fine, evitare la morte divenne per lui una forza motrice. A rendergli le cose difficili, come a tutti noi, fu la morte di persone a lui care. Nel 1963 scomparvero due presenze fondamentali nella lunga vita di Picasso: il pittore Georges Braque ad agosto e lo scrittore Jean Cocteau in ottobre. Lui nascose la testa sotto la sabbia e continuò a lavorare. Cos’altro poteva sconfiggere la morte, se non il lavoro? (..). Nel giudaismo il lutto si divide in quattro fasi: tre giorni di lutto profondo, sette giorni di shloshim asar chodesh, durante il quale alcuni rituali proseguono a mo’ di commemorazione. Il cristianesimo, naturalmente, è basato sull’idea che Gesù si sia sottoposto al rito definitivo dell’umanità – la morte – e lo abbia superato attraverso la resurrezione. Nel buddismo invece non esiste un sé distinto separato dal resto dell’esistenza, perhè la morte coincide semplicemente con la rinascita in un’altra manifestazione della vita e dell’energia presenti nell’universo. In Occidente, evitando le conversazioni sulla morte e rendendola quasi un argomento tabù, ci siamo separati da ciò che la morte può insegnarci. Come ha scritto il dottor Ira Byock in Dying Well: The Prospect for Growth at the End of Life (in italiano “Morire bene”. Prospettive di crescita alla fine della vita”): “La nostra società riserva I suoi massimi elogi alla giovinezza, al vigore e all’autocontrollo, riconoscendogli una dignità, mentre la loro assenza è ritenuta indecorosa. I segni fisici della malattia o dell’età avanzata sono considerati degradanti per l’individuo, e il deteriorarsi del corpo, anziché essere visto come un processo umano inevitabile, diventa fonte d’imbarazzo”. (traduzione di Matteo Colombo)
Arianna Huffington – www.huffingtonpost.it– Donna di Repubblica – 22 agosto 2015 -

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