Nella scuola dell’infanzia di mia figlia quest’anno le
insegnanti hanno deciso di lavorare sul concetto di identità. Viene consegnato
alle famiglie un foglio in cui si spiega il percorso educativo che si vuole
andare a svolgere attorno a questo complesso tema e si dichiara di voler
promuovere la memoria personale, la narrazione, l’ascolto e la conoscenza di sé
e dell’altro. A un certo punto si cita Giovanni Jervis: La conquista
dell’identità. Essere se stessi, essere diversi. Probabilmente con un taglio
forzato dalle esigenze di spazio e una de contestualizzazione penalizzante,
viene riportato questo periodo: “L’immagine di noi stessi è elaborata non tanto
con gli altri quanto soprattutto dagli altri. Basta pensarci un attimo: fin
dalla più tenera infanzia sono stati gli altri a dirci chi siamo. Gli altri ci
vedono sotto una certa immagine, che noi tendiamo a far nostra”. Da semplice
genitore, non da insegnante né da psicanalista, mi si è gelato il sangue. M ha
impaurito, soprattutto considerata la fascia d’età dai 3 ai 6 anni, questa
eccessiva “esternalizzazione”.
Agnese Doria agnesedoria@libero.it
Perché le si raggela il sangue per un’ovvietà così evidente?
Teme la responsabilità di non aver consegnato a sua figlia un’identità
adeguata? Non di preoccupi. Non c’è solo lei nel mondo della sua bambina, e
tanti concorrono a formarle l’identità. Perché l’identità è un dono che ci
fanno gli altri. Noi non nasciamo con un’identità, ma la acquisiamo dalle
relazioni con gli altri che ci approvano e ci confermano nel nostro modo di
vivere, oppure ci disapprovano insinuandoci dubbi circa il nostro modo di
vivere, oppure ci disapprovano insinuandoci dubbi circa il nostro modo di
essere, inducendoci a modificarlo. Ma per comprendere queste cose è necessario
capire e soprattutto interiorizzare che il due viene prima dell’uno, perché a
generare l’uno è il due. Lo sanno benissimo le donne, più dei maschi, perché il
loro corpo, sia che generino sia che non generino, è ordinato biologicamente e
psicologicamente anche per l’altro da sé, per cui la relazione viene
tendenzialmente prima della loro identità che, in generale, trovano nella
relazione. Questo spiega perché le donne tendenzialmente desiderano generare e
sono propense, più dei maschi, ad accudire. Ma questo spiega anche perché le
donne solitamente esprimono la loro sessualità a partire dalla relazione,
mentre i maschi non disdegnano di esprimerla anche a prescindere.(..). Con
l’introduzione del concetto di “anima”, il cristianesimo ha affermato il
primato dell’individuo rispetto alla comunità, facendoci scordare che la
relazione con l’altro e il riconoscimento che dall’altro otteniamo sono l
fondamento della nostra identità. E
questo anche quando con le guerre uccidiamo i nostri simili, perché, come ci
ricorda Hegel: “Mentre gli animali uccidono per nutrirsi, gli uomini
sottomettono e uccidono i propri simili per avere dai vinti il riconoscimento
della loro superiorità”. Spero che queste considerazioni non le raggelino
ulteriormente il sangue, ma la persuadano che non siamo creatori di noi stessi:
ci piaccia o meno, anche per la costruzione della nostra identità, quindi anche
per ciò che c’è di più intimo a noi stessi, dipendiamo dagli altri.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 12 settembre 2015
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