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giovedì 24 settembre 2015

Lo Sapevate Che: Ho ospitato quattro afgani e mi mancano già...



“Siate voi stessi. Il Buddismo paragona la personalità ai fiori di ciliegio, di susino, di pesco e di prugno selvatico: ognuno è diverso, unico e meraviglioso così com’è”. Sono parole di Daisaku Ikeda, il presidente dell’associazione buddista internazionale Soka Gakkai (Società per la creazione di valore). Siamo in un tempo di cambiamenti travolgenti. Masse enormi di persone da noi, molto diverse da noi, stanno arrivando dall’Africa e il Medio Oriente: effetto anche delle nostre politiche di colonizzazione, armamenti, sfruttamenti, distruzione. Mi assillano e ci assillano tante paure. Cosa sarà di loro? Cosa sarà di noi? La paura dei fantasmi religiosi che portano solo morte. La paura di chi arriverà in America dopo Obama. Di nuovo bombaroli? La guerra? Un’altra guerra? Quando pensavamo orami di essere diventati più democratici, più civili, più umani, e che guerre mondiali non ne avremmo viste più? E che cosa posso fare io? Io che sono un artista? Qualcuno scriveva ai tempi della rivoluzione di Basaglia: “Imparare ad amare i fiori diversi”. In questo periodo sto lavorando con i profughi del Piam di Villa Quaglina, il centro di accoglienza di Asti. Questo centro ha come logo questa frase: “”L’accoglienza fa bene”. E l’immagine che accompagna la frase è quella di tre passerotti posati su un filo. Fermi lì a riposarsi per un po’ come uccelli migratori prima di riprendere il volo. Nei giorni di Ferragosto ho accettato la richiesta di quattro rifugiati afgani di venire a passare le vacanze da me in Liguria. E così ho pensato di ospitarli nella mia vecchia barca a vela. E nel tempo passato a convivere con loro in quel piccolo spazio mi sono sorpreso, avendoli conosciuti più profondamente, a scoprire come sono diversi uno dall’altro, anche se appartengono alla stessa razza. E come sono diversi loro dagli altri: i nigeriani, i maliani, i siriani. Quando sui media li vedo sempre impacchettati tutti semplicemente come “profughi”. Il giorno dopo il loro arrivo sono venuti i carabinieri, i vigili e la guardia costiera, allertati da qualcuno che ha visto strani tipi aggirarsi tra le barche. Dopo aver controllato minuziosamente anche me, si sono dovuti arrendere di fronte al loro regolare permesso di asilo politico. E hanno dovuto accettare il loro vagabondare danzando al ritmo della loro musica in mezzo ai bagnati immobili sotto il sole. Ora sono partiti. Ma qualcosa di quell’odore, di quel colore, è rimasto su quella barca che prima era per me così asettica. E la sera mi sono ritrovato a parlare per la prima volta con i miei vicini del porto, che mi chiedevano chi erano queste persone; che all’inizio lì avevano un po’ spaventato, ma che poi avevano trovato così gentili. Mi sono ricordato di una poesia di Kavafis che parlava dei barbari: Perché d’un tatto questo smarrimento ansioso? (come si sono fatti seri i volti!),/ si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi? / S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti./ Taluni sono giunti dai confini, / han detto che di barbari non ce ne sono più. / E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente.
Pippo Delbono (attore e regista teatrale) – Il Commento – Il Venerdì di Repubblica – 18 settembre 2015

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