“Siate voi stessi. Il Buddismo paragona
la personalità ai fiori di ciliegio, di susino, di pesco e di prugno selvatico:
ognuno è diverso, unico e meraviglioso così com’è”. Sono parole di Daisaku
Ikeda, il presidente dell’associazione buddista internazionale Soka Gakkai
(Società per la creazione di valore). Siamo in un tempo di cambiamenti
travolgenti. Masse enormi di persone da noi, molto diverse da noi, stanno
arrivando dall’Africa e il Medio Oriente: effetto anche delle nostre politiche
di colonizzazione, armamenti, sfruttamenti, distruzione. Mi assillano e ci
assillano tante paure. Cosa sarà di loro? Cosa sarà di noi? La paura dei
fantasmi religiosi che portano solo morte. La paura di chi arriverà in America dopo
Obama. Di nuovo bombaroli? La guerra? Un’altra guerra? Quando pensavamo orami
di essere diventati più democratici, più civili, più umani, e che guerre
mondiali non ne avremmo viste più? E che cosa posso fare io? Io che sono un
artista? Qualcuno scriveva ai tempi della rivoluzione di Basaglia: “Imparare ad
amare i fiori diversi”. In questo periodo sto lavorando con i profughi del Piam
di Villa Quaglina, il centro di accoglienza di Asti. Questo centro ha come logo
questa frase: “”L’accoglienza fa bene”. E l’immagine che accompagna la frase è
quella di tre passerotti posati su un filo. Fermi lì a riposarsi per un po’
come uccelli migratori prima di riprendere il volo. Nei giorni di Ferragosto ho
accettato la richiesta di quattro rifugiati afgani di venire a passare le
vacanze da me in Liguria. E così ho pensato di ospitarli nella mia vecchia
barca a vela. E nel tempo passato a convivere con loro in quel piccolo spazio
mi sono sorpreso, avendoli conosciuti più profondamente, a scoprire come sono
diversi uno dall’altro, anche se appartengono alla stessa razza. E come sono
diversi loro dagli altri: i nigeriani, i maliani, i siriani. Quando sui media
li vedo sempre impacchettati tutti semplicemente come “profughi”. Il giorno
dopo il loro arrivo sono venuti i carabinieri, i vigili e la guardia costiera,
allertati da qualcuno che ha visto strani tipi aggirarsi tra le barche. Dopo
aver controllato minuziosamente anche me, si sono dovuti arrendere di fronte al
loro regolare permesso di asilo politico. E hanno dovuto accettare il loro
vagabondare danzando al ritmo della loro musica in mezzo ai bagnati immobili
sotto il sole. Ora sono partiti. Ma qualcosa di quell’odore, di quel colore, è
rimasto su quella barca che prima era per me così asettica. E la sera mi sono
ritrovato a parlare per la prima volta con i miei vicini del porto, che mi
chiedevano chi erano queste persone; che all’inizio lì avevano un po’
spaventato, ma che poi avevano trovato così gentili. Mi sono ricordato di una
poesia di Kavafis che parlava dei barbari: Perché d’un tatto questo smarrimento
ansioso? (come si sono fatti seri i volti!),/ si svuotano, e ritornano tutti a
casa perplessi? / S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti./ Taluni
sono giunti dai confini, / han detto che di barbari non ce ne sono più. / E
adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente.
Pippo Delbono (attore e regista teatrale) – Il Commento – Il Venerdì di Repubblica – 18 settembre 2015
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