Che cosa significa
modernizzare l’Italia? Dopo un quarto di secolo in cui questa è stata la
missione dichiarata di qualsiasi governo, il grande totem di successo del
berlusconismo, l’ossessione ripetuta in quasi ogni commento da prima pagina,
bisognerebbe forse chiarirsi meglio le idee su che cosa sia
davvero moderno e davvero vecchio. Modernizzare significa sfruttare al meglio i
progressi compiuti e saper preparare il futuro. Naturalmente molto dipende dal
futuro che uno s’immagina. Se il futuro delle società è quello descritto, per
esempio, dai romanzi popolari di Suzanne Collins – nazioni governate da
oligarchie di ricchi nullafacenti che compaiono sfruttando masse di lavoratori senza diritti – può darsi che l’Italia, come
altri Paesi, si stia molto modernizzando. Nella Panem degli Hunger Games di Suzanne Collins il ceto
medio è sparito e con esso le istituzioni le istituzioni democratiche, i
giovani non figli dell’élite sono destinati a
sopravvivere con salari da fame e l’unica possibilità di successo è vincere dei
talent show dove il talento consiste nell’uccidere gli altri contendenti.
Insomma, siamo sulla buona strada. Se invece si guarda al futuro con maggiore
ottimismo, modernizzare un Paese dovrebbe significare saper usare i progressi
tecnologici per migliorare la qualità del lavoro e della vita dei cittadini,
diffondere benessere e conoscenza, ridurre gli squilibri sociali, geografici e
generazionali. L’Italia sarà modernizzata quando sarà fra i primi posti e non
fra gli ultimi nella tutela dell’ambiente, lotta alla povertà, equità fiscale,
investimento pubblico e privato in ricerca e istruzione, occupazione e reddito
giovanile, sviluppo tecnologico delle aziende, numero d’iscritti all’Università
e indici di lettura, integrazione degli immigrati, dei quali un Paese con molti
anziani e pochi figli ha un disperato bisogno. Dopo un ventennio di
“modernizzazione” siamo invece regrediti ovunque. Non è soltanto colpa di chi ha
governato, ma anche di noi dell’informazione che abbiamo raccontato una realtà
che non esiste, di un Paese assediato dal crimine e invaso dagli stranieri,
dove i giovani non hanno voglia di lavorare e chi lavora gode di troppe
garanzie, quando sarebbe bastato leggere i rapporti dell’Istat e fare due
confronti con altre nazioni europee per capire che i problemi stanno altrove.
Certo, lucidare i luoghi comuni è meno impegnativo che girare l’Italia per
scoprire che cosa c’è dietro la deindustrializzazione, la distruzione del
territorio, il degrado delle città o il collasso dell’università e in genere
della cultura. Ma da qui, prima o poi, tocca ripartire.
Curzio Maltese – Contromano – Il Venerdì di Repubblica – 11
settembre 2015 -
Nessun commento:
Posta un commento