Giovanni Falcone diceva che se la mafia, come fenomeno criminale, fosse inserita in un sistema fondamentalmente sano, per sradicarla basterebbe un’azione di polizia.
Purtroppo non è così. Come risulta evidente dopo decenni di indagini, in Italia la mafia è una componente strutturale di ampie aree della società, della politica e dell’imprenditoria.
E’ per questo motivo che, ogni volta che ne ho l’occasione, torno a ripetere che le persone impegnate nella repressione della criminalità mafiosa – i magistrati, le forze dell’ordine – hanno bisogno, per essere efficaci del coinvolgimento e della partecipazione di cittadini che credono nel principio della legalità.
Se cercate su un vocabolario la parola legalità, troverete che il sup significato è “rispetto della legge, osservanza della legge, delle regole previste dal diritto”.
Questo è formalmente corretto.
Ma la cultura della legalità è qualcosa di più: è un sistema di principi, idee e comportamenti teso a realizzare l’uguaglianza fra i cittadini, i valori della libertà e della dignità della persona; teso ad affermare la democrazia, la giustizia, la tolleranza, l’integrazione e la non violenza come principi che regolano le azioni quotidiane dei cittadini.
A qualcuno potrà sembrare un obbiettivo troppo impegnativo, se non addirittura utopistico. Ma a questa obiezione rispondo, in primo luogo, che storicamente, i grandi cambiamenti sono sempre cominciati come utopie; e in secondo luogo che la cultura della legalità è la condizione imprescindibile di uno Stato che si possa dire davvero democratico. Democratico sostanzialmente, non solo formalmente.
In un Paese dove sono possibili la corruzione, la sopraffazione, il sopruso, il mafioso può dire: “La torta è mia e le porzioni le faccio io”. E decidere a chi dare e a chi no. Chi riceve anche solo una briciola deve essere grato per il favore concesso e garantire in cambio fedeltà, obbedienza, omertà, complicità.
Chi cade in questa rete, convinto di conquistare dei benefici, scoprirà presto, e a sue spese, che la mafia è soggezione, intimidazione, violenza, carcere, sangue. Chi resiste si trova non solo isolato e privo di privilegi, ma anche esposto a minacce e ritorsioni.
Per gli uni e per gli altri, la soluzione è stare dalla parte della legalità, poiché la legalità è la forza dei deboli, la garanzia dell’eguaglianza, la tutela di chi rifiuta di essere obbligato a scegliere fra il commettere e il subire un sopruso. Una volta, durante una pausa concessa nel corso di un interrogatorio, chiesi a un boss pentito quando, secondo lui, sarebbe finita la mafia. Mi rispose con un aneddoto. Mi raccontò che un giorno un disoccupato di 28 anni, disperato perché non riusciva a comprare il latte in polvere alla sua bimba di otto mesi, gli chiese una mano e lui lo mandò nel cantiere di un costruttore che lavorava grazie ai suoi investimenti. Dopo qualche giorno il giovane tornò a ringraziarlo e ricambiò il favore “prestando” al boss la propria carta d’identità, che questi utilizzò durante la latitanza. “Capisci qual è il problema?”, mi chiese il pentito. “Fin quando qualcuno in difficoltà viene da me invece di rivolgersi allo Stato, la mafia non finirà mai”.
Nell’attuale, delicatissima fase di crisi economica, sociale e istituzionale dobbiamo ricordarci che, soprattutto in certe regioni, le organizzazioni criminali si sostituiscono allo Stato nelle funzioni primarie, dando finanziamenti, offrendo servizi e persino lavoro legale. In questa fase, nascere alle Vele di Scampia, alla periferia di Rosarno, allo Zen di Palermo può segnare il destino di un giovane – e dei giovani di un’intera generazione. Per questo sono necessarie leggi non solo rigorose, ma giuste, che tengano conto delle differenti condizioni dei cittadini. Diffondere la cultura della legalità in uno Stato democratico significa vincere il disimpegno morale, la mancanza di senso civico, la tentazione di “farsi gli affari propri”.
Al contrario, finché saranno tollerati i rapporti delle istituzioni, della politica, dell’imprenditoria con la criminalità; finché ci si potrà appropriare di fondi pubblici per i propri affari privati; finché si potrà evadere il fisco, non ci sarà né manovra economica che tenga, né sviluppo possibile.
E neppure un’azione antimafia efficace, perché l’azione antimafia non è qualcosa di separato dal progetto di cambiamento all’interno della società. Vent’anni fa venivano uccisi due grandi “utopisti”: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le terribili immagini dell’autostrada ridotta a una voragine che inghiottiva l’auto, l’asfalto, le lamiere del guard-rail e del palazzo, che pareva bombardato, e nascondeva tra le macerie brandelli di carne umana, sono ben vive nella memoria di tutti noi.
Ma è altrettanto vivo il ricordo del loro coraggio, del loro sacrificio e della tenacia con la quale hanno portato fino in fondo, ignorando le minacce e la paura, la loro battaglia per liberare il loro, il nostro Paese dalla morsa di un potere criminale che lo stava soffocando.
Raccogliamo quell’utopia, aiutiamola a progredire un altro poco: la strada per debellare la mafia è la stessa che bisogna percorrere per costruire un Paese migliore.
Il Commento di Pietro Grasso – Venerdì di Repubblica 15-6-12
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