Periodicamente mio marito mi lascia.
Lo fa ogni volta in un modo diverso ma sempre con il glaciale distacco dell’inevitabilità.
“Non ti amo più”, dice serafico. E mi guarda distratto, mentre già pensa ad
altro. Ed è dal suo sguardo, ancor più dalle sue parole, che capisco che finirà
sul serio. Lo fa sempre di notte, quando nessuno ci può vedere o sentire. Mi
coglie sempre alla sprovvista nell’ora più piccola e fragile. Io non mi abituo
mai. E resto lì, incredula e atterrita. Lo guardo andare. Non lo trattengo perché
so che è inutile. Mi rimpicciolisco piano piano, divento pallina, grumo,
lacrima. In alcuni casi mi consolo subito e mi metto alla ricerca di un uomo
che possa degnamente sostituire l’apparentemente insostituibile economista
marxista barese. In altri cado n un pozzo di disperazione da cui tempo che non
mi riprenderò più. In sogno, mio marito mi ha lasciata almeno cento volte.
Quando mi sveglio mi ritrovo annichilita e furiosa. “Perché mi fai soffrire
così?”, inveisco contro di lui che si ritiene innocente. È la paura che tira
questi scherzi, credo. E l’insicurezza. Lui lo sa e non ne ha mai approfittato. Io lo so e le tengo a bada, almeno
di giorno. In effetti io ho paura di moltissime cose: di ammalarmi, di restare
sola, di intristirmi, di perdere la leggerezza e di prendere peso, in molti
sensi. Ho paura che i miei figli vadano a vivere in Australia, o su Marte. Ho
paura che soffrano. Ho paura di soffrire. Ho paura dei vortici nella vasca da
bagno. Ho paura del silenzio e della noia, delle giornate fredde di pioggia. Ho
para di non essere amata. Ho paura di non essere abbastanza. Ma non ho paura di
dirlo, forse anche grazie, per una volta, a uno stereotipo di genere. Perché da
noi – bambine, ragazze, signore, donne. nessuno aspetta l’invulnerabilità.
Possiamo dirci fragili senza subire danni collaterali di immagine o di
sostanza. Possiamo essere limpide con noi stessi e con gli altri, mostrando i
nostri pieni ma anche i nostri vuoti. E questo altro non è che la libertà di
essere no stesse, un privilegio, un’arma, una bella responsabilità. Sono cresciuta
con un’amica che è stata una sorella. Abitava al terzo piano e, per anni,
abbiamo passato i nostri pomeriggi a raccontarci i nostri brutti sogni, le
nostre fragilità, le nostre numerose crepe. A nostra forza di oggi viene anche
da quell’esserci mostrate impudiche le macchie di allora. A indossare corazze
si impara da piccoli e si insegna soprattutto ai giovani uomini, condannati da
modelli retrogradi ma radicati, a esibire la maschera ottusa e sorridente del cavaliere
coriaceo e invincibile. Detesto il cinismo, la spavalderia, la sbruffonaggine. Del
prossimo mi incantano le incongruenze, le sbavature, le cicatrici e le ferite.
Siamo le nostre sconfitte ben più che le nostre vittorie. Siamo le nostre rughe
di espressione, d’inquietudine che ci appanna lo sguardo, gli occhi lucidi, i
brutti sogni. Il fiato corto. Siamo le nostre luci ma soprattutto le nostre
ombre. Nasconderle è un’ipocrisia che non ci rende giustizia, è un torto che ci
infliggiamo. M sono toccati in sorte tre figli maschi, un genere forse
socialmente privilegiato ma emotivamente negletto e vessato da un perverso
concetto del dover essere. Li vorrei comodi nei loro panni, lustri o sgualciti,
non diversi dai nostri. Li vorrei liberi di dichiararsi pavidi. Vorrei per loro
il coraggio di alzare bandiera bianca, di dire “no, grazie, ho paura”, di
versare qualche lacrima se necessario. Li vorrei orgogliosi di essere se sessi.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di
La Repubblica – 27 ottobre 2018 -
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