Sono una giovane donna che dopo gli anni spesi a studiare e a lavorare, mi sono fermata
perché mi ero resa conto che quello che facevo non coincideva affatto con me
stessa. “Ma che vuoi tu, hai un contratto a tempo indeterminato e ti lamenti?”.
Sì ma non sono felice, non mi sto evolvendo, non sto impiegando bene il mio
tempo, e non ne trovo per leggere un buon libro, conversare della vita con
qualcuno. Ovviamente di fronte a tempi di disoccupazione e incertezza non
importa molto se tu sei felice oppure no, importa che tu sia perfettamente
allineato a tutto il resto. Con un lavoro che avvertiamo come qualcosa di altro
da no, ma a cui dedichiamo ben 40 anni della nostra vita, se ci va bene Per non
parlare della mia generazione, gente innamorata solo di se stessa e della
propria immagine riflessa sui social network. Ci stiamo disumanizzando per far
spazio agli “umanoidi”, ovvero a dei robot capaci di fare tutto molto meglio di
noi. Ma sarà davvero progresso ed
evoluzione tutto questo? A che punto siamo realmente nella storia
dell’umanità? Laura
Siamo nel post-umano, non nel senso che i robot tra un po'
sostituiranno l’uomo (leggo che a Torno hanno aperto una casa di prostituzione
con bambole di silicone, alcune delle quali saranno anche in grado di parlare
grazie a un algoritmo). Siamo nel post-umano nel senso che noi occidentali
siamo precipitati in una sorta di alienazione, che neppure Marx, avrebbe
sospettato. Si tratta di un’alienazione che non consiste nel fatto che chi lavora
non riceve l’equivalente del suo lavoro, ma nel fatto che chi lavora, per tutte
le ore di lavoro. Deve mettere tra parentesi la sua persona, perché sa di
essere valutato unicamente per la sua efficienza e la sua produttività. In una
parola per quello che fa e non per quello che è. A tutto ciò si aggiunge che ai
tempi di Marx i compagni di lavoro erano appunto compagni. Oggi, chi lavora al
mio fianco, se è più efficiente e produttivo di me, in caso di crisi diventa un
mio potenziale concorrente. Questo vissuto ansiogeno fa sì che nei posti di
lavoro non c’è più quella solidarietà o quel trovarsi come un tempo nella
stessa sorte, ma un clima di sospettosità che rende falsa la comunicazione e
convenzionali i rapporti. Se la felicità, come diceva Aristotele, consiste
nella propria autorealizzazione, oggi dove tutti lavoriamo per realizzare gli
scopi dell’apparato, ed eseguiamo le azioni descritte e prescritte
dall'apparato di appartenenza, sia in fabbrica che nella pubblica
amministrazione, sia negli ospedali che nella scuola, sia negli studi
professionali che nell'organizzazione dei supermercati, dove l’osservanza delle
regole, dei protocolli e dei programmi tutela l’individuo a condizione che non
dia corso ad alcuna iniziativa personale, l’uomo sparisce e sul campo resta
solo la sua prestazione, finché un robot non sostituirà anche quella. In questo
senso, dicevo che questa alienazione è peggiore di quella segnalata da Marx,
perché non sottrae all'uomo il riconoscimento economico che gli spetta, ma
sottrae all'uomo la sua umanità. L’uomo è anche irrazionale e lo è perché ama,
perché soffre, perché immagina, perché sogna. tutto questo è vissuto come un
disturbo dalla razionalità tecnica, perché può intralciare la buona esecuzione
delle procedure che mettono capo ai risultati attesi nella forma e nella
modalità in cui sono attesi, secondo le esigenze del mercato, egemonizzato da
quell'unico valore che ha soppiantato tutti gli altri valori che è il denaro.
Questo fa sì che non sappiamo più che cosa è buono, che cosa è giusto, che cosa
è vero, che cosa è bello, che cosa è santo, ma solo che cosa è utile. In una
catena infinita che non approda ad alcuna formazione di senso che sia
gratificante o almeno soddisfacente per la quotidianità della nostra vita. E
allora si capisce perché c’è questa gara a mostrarsi e apparire, con
conseguente consumo sfrenato di abiti e pratiche corporee che stanno al posto
di un’identità perduta. Così come si capisce perché c’è questo bisogno sfrenato
di comunicare sui social, fondamentalmente con nessuno, unicamente per vedere
l’effetto che fa, in un mondo di non pesanti come lei li descrive, ma
compulsivamente bisognosi di dire la propria opinione irriflessa, che è
ritenuta tanto più autentica quanto più è dettata dalla pancia. Il rimedio? Non
c’è. Uno dei miei maestri Karl Jaspers, quando ero ventenne ebbe a dirmi: “Non
credere che l’umanità progredisca sempre. Talvolta può anche regredire e
rimanere per molto tempo in questa regressione, se non addirittura estinguersi,
nel senso di perdere per sempre i tratti che fino ad ora ci consentivano di
riconoscere in un individuo un uomo”.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 17
novembre 2018 -
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