Conosco
Questa Brutta usanza che fa aderire, soprattutto le madri, a quel
tipo di comunicazione tipica dei loro figli, per commentare quanto ai loro
figli capita a scuola. Mi domando: ma queste mamme non hanno niente da fare?
Non hanno un lavoro che le impegni? Si interessano di politica? Stanno loro a
cuore i problemi della nostra società? Leggono qualche libro? Frequentano
qualche evento culturale? Pensano alla loro vita o si dedicano ossessivamente
alla vita dei loro pargoli, con la loro incombente protezione che ne rallenta
la crescita? Quando i bambini vanno a scuola devono incominciare un’esperienza in
cui apprendono che nella vita non si è sempre protetti, e meno protezione si ha
più ci si deve dar da fare per proteggersi e rassicurarsi da sé. È un passaggio
fondamentale che inizia a piccoli passi nella scuola primaria e deve diventare
definitivo in quella secondaria, quando i genitori devono sparire
definitivamente dalla scuola e lasciare che i loro ragazzi imparino a cavarsela
da sé. Questo passaggio si chiama “rito d’iniziazione” che le antiche civiltà
regolarmente per autonomizzare i giovani, allontanandoli da quelle cure
parentali che rallentano quando addirittura non bloccano la crescita. Fu Franco
Maria Malfatti, Ministero della Pubblica Istruzione, a introdurre, con i
Decreti Delegati del 1973, i genitori nelle scuole. Mai cosa fu più deleteria,
perché i genitori, in generale, non sono interessati alla formazione dei loro
figli, ma alla loro promozione. In pratica fanno i sindacalisti dei figli, difesi
con arroganza e talvolta anche con gesti aggressivi nei confronti degli
insegnanti, quando non addirittura con ricorsi al Tar per ottenere per via
giudiziaria quel che non hanno ottenuto per effetto dello scarso impegno nello
studio dei loro fili. La conseguenza è che gli insegnanti, per non passare i
mesi estivi in tribunale, anche su sollecitazione di dirigenti scolastici che
amano il quieto vivere tendono a promuovere tutti, con tanti saluti alla
meritocrazia e al senso di giustizia che esigerebbe una diversa valutazione per
chi ha studiato e per chi non ha studiato. Mi paiono concetti semplici. Di
fatto sono del tutto ignorati. Ma torniamo alla scuola elementare quando
genitori, attraverso le chat, o addirittura in presenza dei loro bambini, parlano
male della maestra (sport molto diffuso), procurando al loro bambino un danno
non trascurabile perché, quando va a scuola il bambino orienta la sua
affettività che prima era rivolta solo ai genitori, anche verso la maestra. A
questo punto se i genitori parlano male della maestra creano una contraddizione
nell’orientamento affettivo del bambino, che è molto più difficile da riparare
di quando la contraddizione investe l’ordine razionale. A quel punto il bambino
non sa più di chi fidarsi. E quando nell’adolescenza si manifestano i danni
subiti nell’infanzia, i genitori non si devono meravigliare che i loro figli
non abbiano più fiducia in nessuno, perché il danno l’hanno procurato loro.
Delle maestre bisogna parlare sempre molto bene, perché nell’ordine degli
insegnanti sono le uniche che, oltre a istruire, educano, curando non solo l’intelligenza
dei bambini, ma anche la loro parte emotiva, la loro aperura sociale, persino i
loro bisogni fisiologici, cosa che non avviene più nelle scuole superiori, dove
al massimo si istruisce ma non si educa. Infatti non si può educare quando le
classi sono composte da trenta studenti e quando i professori, pur avendo a che
fare con ragazzi in età evolutiva, non hanno mai letto un libro, né tantomeno
sostenuto un esame di psicologa dell’età evolutiva. In un congresso
internazionale sull’istruzione nel mondo, la scuola primaria italiana è al
sesto posto in un elenco di 421 scuole prese in esame. Teniamone conto prima di
parlarne male.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di La Repubblica – 27 ottobre 2018 -
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