Flatbush, Brooklyn, Uno dei quartieri insalatiera di New York,
dove gente di tutto il mondo e di tutti i colori si mescola, s’incrocia, si
scontra. Nel piccolo supermercato Safari non ci sono bestie feroci, ma la
tensione fra i clienti è spesso alta quanto strette sono le corsie fra gli scaffali
e le casse. Teresa Klein, una signora sulla cinquantina, è in coda per pagare.
Improvvisamente ma inconfondibilmente sente qualcosa premerle sul sedere e
strusciare. Si volta di scatto e vede un ragazzo di colore, un black,
allontanarsi. È stato lui, non c’è dubbio, non ci possono essere dubbi, il
colpevole della palpata. Teresa panica, non sa come reagire, non vuole
affrontarlo e accusarlo, in quel Safari pieno di gente di colore. Esce dal supermarket,
sfodera il telefonino, chiama il 911, la polizia e denuncia la aggressione. “Mi
hanno attaccata”, la si vede e sente dire nel video che l’immancabile,
smartphone di passaggio ha ripreso e rilanciato in internet, “è stato un
ragazzo afroamericano, è ancora dentro il negozio, fate qualcosa”. Il clip
raccoglierà in poche ore nove milioni di visualizzazioni, prima che il caso
della signora palpeggiata al supermercato venisse risolto. Grazie alle
telecamere di sorveglianza, l’incidente era stato filmato. Un ragazzo afro
incrocia effettivamente la signora Klein. Sarà identificato dallo stesso
gestore del negozio. E’ un bambino di nove anni con un pesante e gonfio zaino
sulle spalle che quasi sfiora terra. Nello stretto passaggio tra le file, il
ragazzo cerca di uscirne, il sacco prima poggia e poi striscia sul deretano
della signora, casualmente. Un uragano di insulti e di sarcasmo si abbatte su
Teresa Klein, che ha accusato di aggressione sessuale un bambino di nove anni,
calmato un poco soltanto quando lei si scuserà pubblicamente, ammettendo di
essere caduta nel panico. Ma il caso della donna molestata da uno zainetto, che
ha raggiunto i quotidiani e le televisioni, racconta molto di più della
reazione frettolosa di una persona qualsiasi. Racconta quella verità che ogni
giorno, nella vita di tutti, qui conosciamo: la paura profonda, inestirpabile,
irrazionale dell’Uomo Nero, che tocca anche coloro che non la ammetterebbero
mai, però sono pronti ad attraversare la strada e passare sul marciapiede
opposto se d notte incrociano un giovane afroamericano. Nel colore di quella
pelle c’è una presunzione di colpevolezza che nessuna sentenza della Corte
Costituzionale, nessun successo personale, neppure la ricchezza riescono a
cancellare. Lo ammettono, nei fatti, i tribunali che infliggono a imputati afro
americani pene detentive per il 20 per cento più lunghe rispetto ai banchi per
gli stessi reati, calcola la commissione nazionale per lo studio delle
sentenze, formata da avvocati, pubblici ministeri, giudici in pensione. Due
terzi dei due milioni di detenuti nelle carceri federali sono neri, che sono
appena il 12 per cento della popolazione, un dato che porterebbe a concludere
che il 70 per ceto dei reati più gravi è commesso da appena il 12 per cento
degli americani. Una sproporzione creata dalla facilità con quale accusa e
giudici perseguono e condannano uomini di colore, spesso difesi da distratti
avvocati d’ufficio. Persino Barack Obama, uomo dalla vita noiosamente
irreprensibile, soprannominato “No drama Obama”, era stato accusato di un reato:
avere falsificato il proprio certificato di nascita per farsi credere
americano. La signora Teresa Klein ha perduto la testa nel pensare che un
bambino di nove anni fosse interessato al suo didietro e si è scusata. Ma ogni
bambino con la pelle scura deve sapere che nello zainetto porta la colpa
indelebile di essere neo.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La
Repubblica - 27 ottobre 2018 -
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