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giovedì 29 novembre 2018

Lo Sapevate Che: Che differenza c'è tra l'uomo e la donna?...


Riflettendo sulla vicenda della sorella di Stefano Cucchi e su quella del padre di Eluana Englaro mi domando che differenza c’è tra l’uomo e la donna? Mi sono convinto che la donna costruisce la sua identità soggettiva nella relazione con l’altro che non è un abitare dentro di lei, come ella può avere dentro di sé un bambino, e penso che, vedendo il corpo torturato di Stefano Cucchi, sua sorella abbia avuto la sensazione che fosse stata colpita una parte di sé, come se fosse stato martoriato un suo braccio o sfigurato il suo volto. Nella battaglia di Ilaria per ottenere giustizia non v’è traccia del sereno distacco mostrato dal padre di Eluana Englaro, che manifesta col suo amore “maschile” la condivisione della scelta di vita della figlia, perché, nel caso di Ilaria Cucchi, siamo in presenza di un sentimento di fratellanza, che è soprattutto condivisione di idee, comprensione umana e solidarietà. Non so se i maschi siano in grado, per natura o per cultura, di provare un sentimento simile a quello della sorellanza che va oltre la semplice empatia o il comune sentire.
Giuliano Faggiani  dataidea.turismo@libero.it

Non so se, per analogia al concetto di “fratellanza”. Sia necessario introdurre il termine “sorellanza”, per segnalare la presenza nelle donne di una dimensione sentimentale che, come lei dice: “va oltre la semplice empatia o il comune sentire”. Nonostante i tempi tendano a equiparare il maschile e il femminile e la moda tenda a uniformare i sessi, non solo negli abiti, ma anche nei comportamenti e nel linguaggio, io continuo a considerare essenziale la differenza tra uomini e donne, proprio a partire dalla considerazione che fa lei, e che sintetizzare in questi termini: la donna trova la sua identità nella relazione, l’uomo è un’identità che instaura relazioni. O, detto altrimenti: la donna è due, l’uomo è uno. Due non significa uno più uno, ma l’uno e l’altro, nel senso che, sia che generi sia che non generi, il corpo della donna è fatto per un altro, e di conseguenza anche la sua psiche è orientata all’alterità della forma, ad esempio, della cura. Sto parlando di una cura da intendersi non nell’eccezione maschile del “procurare” qualcosa a qualcuno (lo stipendio, la casa, la condizione sociale, ecc.). Ma nel senso di “prendersi cura” di qualcuno, della qual cosa non sempre gli uomini, tutti impegnati a celebrare se stessi, raccolti come sono nel chiuso della loro identità, si rendono conto. Anche dal punto di vista sessuale, mentre le donne, tendenzialmente e in linea di massima, si concedono all’interno di una relazione, gli uomini, invece, sono delle identità disposte a concedersi a qualsiasi relazione dovesse offrirsi. Per effetto di questa disposizione alla cura, connessa anche al fatto che a generare sono le donne, fin dall’origine dei tempi la donna è rimasta legata alla natura, più funzionaria della specie che donna. Gli uomini, liberi dal vincolo della natura, quindi dalla generazione e dalla cura, hanno preso a giocare prima con gli animali e la caccia poi tra di loro con la guerra. Hanno inventato miti per tenere coesa la comunità, e poi istituzioni negate alle donne, infine idee da cui hanno originato scienza e tecnica. Liberi dalla natura, gli uomini hanno inventato la cultura che ai loro occhi, ma anche a quelli delle donne, nobilitava l’opacità della materia. Così ad esempio, nelle Isole Trobriand, riferisce l’antropologo Bronislaw Malnowsky, le popolazioni della Melanesia ignoravano il contributo maschie nella generazione, però le donne, da lui interrogate, riferivano che tutti i figli assomigliavano al padre. Concetto questo che ritroviamo in Aristotele, secondo il quale la donna fornisce la materia e il maschio la forma, non dissimile dal racconto evangelico dove Maria concepisce il figlio, il quale dirà di sé: “Io e il Padre siamo la stessa cosa”. Subordinata al potere maschile da un lato perché la donna, essendo legata alla natura, non aveva accesso alla cultura, dall’altro perché era temuta dal mondo maschile in quanto depositaria di quel potere assoluto (prerogativa del re) che è il potere di vita e di morte, iscritto nella sua capacità di generare o abortire. Questo potere ha generato spesso e ancora genera nella dona un vissuto di onnipotenza che la persuade, nonostante le violenze che subisce, di poter trasformare (ri-generare) l’uomo con cui vive. Questa illusione che non tiene conto che l’umo non ha la stessa sensibilità della donna e tantomeno quel vissuto del “prendersi cura” che è tipico di lei, non di rado espon
e la donna a quell’evento tragico che oggi passa sotto il nome di femminicidio.
umbertogalimerti@repubblica.it – Donna di La Repubblica  - 24 novembre 2018 -

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