Riflettendo sulla
vicenda della sorella di Stefano Cucchi e su quella del padre
di Eluana Englaro mi domando che differenza c’è tra l’uomo e la donna? Mi sono
convinto che la donna costruisce la sua identità soggettiva nella relazione con
l’altro che non è un abitare dentro di lei, come ella può avere dentro di sé un
bambino, e penso che, vedendo il corpo torturato di Stefano Cucchi, sua sorella
abbia avuto la sensazione che fosse stata colpita una parte di sé, come se
fosse stato martoriato un suo braccio o sfigurato il suo volto. Nella battaglia
di Ilaria per ottenere giustizia non v’è traccia del sereno distacco mostrato
dal padre di Eluana Englaro, che manifesta col suo amore “maschile” la
condivisione della scelta di vita della figlia, perché, nel caso di Ilaria
Cucchi, siamo in presenza di un sentimento di fratellanza, che è soprattutto condivisione
di idee, comprensione umana e solidarietà. Non so se i maschi siano in grado,
per natura o per cultura, di provare un sentimento simile a quello della
sorellanza che va oltre la semplice empatia o il comune sentire.
Non so se, per analogia al concetto di “fratellanza”. Sia necessario
introdurre il termine “sorellanza”, per segnalare la presenza nelle donne di
una dimensione sentimentale che, come lei dice: “va oltre la semplice empatia o
il comune sentire”. Nonostante i tempi tendano a equiparare il maschile e il
femminile e la moda tenda a uniformare i sessi, non solo negli abiti, ma anche
nei comportamenti e nel linguaggio, io continuo a considerare essenziale la
differenza tra uomini e donne, proprio a partire dalla considerazione che fa
lei, e che sintetizzare in questi termini: la donna trova la sua identità nella
relazione, l’uomo è un’identità che instaura relazioni. O, detto altrimenti: la
donna è due, l’uomo è uno. Due non significa uno più uno, ma l’uno e l’altro,
nel senso che, sia che generi sia che non generi, il corpo della donna è fatto
per un altro, e di conseguenza anche la sua psiche è orientata all’alterità
della forma, ad esempio, della cura. Sto parlando di una cura da intendersi non
nell’eccezione maschile del “procurare” qualcosa a qualcuno (lo stipendio, la
casa, la condizione sociale, ecc.). Ma nel senso di “prendersi cura” di
qualcuno, della qual cosa non sempre gli uomini, tutti impegnati a celebrare se
stessi, raccolti come sono nel chiuso della loro identità, si rendono conto.
Anche dal punto di vista sessuale, mentre le donne, tendenzialmente e in linea
di massima, si concedono all’interno di una relazione, gli uomini, invece, sono
delle identità disposte a concedersi a qualsiasi relazione dovesse offrirsi.
Per effetto di questa disposizione alla cura, connessa anche al fatto che a
generare sono le donne, fin dall’origine dei tempi la donna è rimasta legata
alla natura, più funzionaria della specie che donna. Gli uomini, liberi dal
vincolo della natura, quindi dalla generazione e dalla cura, hanno preso a
giocare prima con gli animali e la caccia poi tra di loro con la guerra. Hanno
inventato miti per tenere coesa la comunità, e poi istituzioni negate alle
donne, infine idee da cui hanno originato scienza e tecnica. Liberi dalla
natura, gli uomini hanno inventato la cultura che ai loro occhi, ma anche a
quelli delle donne, nobilitava l’opacità della materia. Così ad esempio, nelle
Isole Trobriand, riferisce l’antropologo Bronislaw Malnowsky, le popolazioni
della Melanesia ignoravano il contributo maschie nella generazione, però le
donne, da lui interrogate, riferivano che tutti i figli assomigliavano al
padre. Concetto questo che ritroviamo in Aristotele, secondo il quale la donna
fornisce la materia e il maschio la forma, non dissimile dal racconto
evangelico dove Maria concepisce il figlio, il quale dirà di sé: “Io e il Padre
siamo la stessa cosa”. Subordinata al potere maschile da un lato perché la
donna, essendo legata alla natura, non aveva accesso alla cultura, dall’altro
perché era temuta dal mondo maschile in quanto depositaria di quel potere
assoluto (prerogativa del re) che è il potere di vita e di morte, iscritto
nella sua capacità di generare o abortire. Questo potere ha generato spesso e
ancora genera nella dona un vissuto di onnipotenza che la persuade, nonostante
le violenze che subisce, di poter trasformare (ri-generare) l’uomo con cui
vive. Questa illusione che non tiene conto che l’umo non ha la stessa
sensibilità della donna e tantomeno quel vissuto del “prendersi cura” che è
tipico di lei, non di rado espon
e la donna a quell’evento tragico che oggi passa sotto il
nome di femminicidio.
umbertogalimerti@repubblica.it – Donna di La Repubblica - 24 novembre 2018 -
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