CI SONO DEI NUOVI ATTORI sulla scena affollata
e confusa delle guerre nostre contemporanee, o meglio del racconto che ne fanno
i media, spesso sensazionalista e sommario. Sono i documentaristi indipendenti,
registi quasi sempre giovani o giovanissimi che non ne possono più delle
retoriche imperanti, e che decidono di andare a vedere di persona. Per tornare
a casa, magari anni dopo, con film che cambiano per sempre non solo l’immagine
di quel conflitto ma le regole del gioco: il modo di raccontare la guerra, i
rapporti con chi la fa o la subisce, l’approccio con un mondo in cui eventi,
sentimenti, schieramenti, sono sempre più complessi di come vengono dipinti.
Tra i massimi esponenti di questa nuova tendenza c’è Stefano Savona, regista
del bellissimo “La strada dei Samouni” (premiato a Cannes e in tanti altri
festival tra cui quello di Salina, ora in tour per l’Italia grazie alla
Cineteca di Bologna), anche perché la pratica fin dal suo primo film, “Primavera
in Kurdistan”, e ha continuato a perfezionarla in lavori come “Piombo fuso” e
Tahrir Liberation Square”. Savona sa da sempre che non basta guardare per
raccontare, come fanno le troupe dei tg. Tantomeno postare video
raccapriccianti che diventano più o meno consapevolmente armi in mano alle
varie fazioni. Né incrociare statistiche o discutere sulle immagini da
pubblicare, come accade nelle redazioni. No, per capire cosa succede davvero
bisogna vivere a lungo con le persone che si vogliono rappresentare,
condividere paure, speranze, pericoli, costruire un’intimità che è la
condizione di ogni possibile scoperta. Non per fare banale “controinformazione”
come si diceva una volta, ma per esplorare dimensioni invisibili se ci si ferma
alla cronaca. Il colpo d’ala de “La strada dei Samoumi” è lo sguardo sul
passato di questa famiglia di contadini palestinesi che nella striscia di Gaza
vivono da sempre e vengono decimati da un bombardamento durante l’operazione
“Piombo fuso”. Un passato inconoscibile e insieme incancellabile che il film
resuscita con rigore e forza poetica grazie alle immagini di un grande
animatore come Simone Massi, che conferiscono un’aura mitica al rapporto con la
terra e a ogni sfumatura del quotidiano. Ma non è detto che per raccontare a
fondo la guerra si debba compiere un percorso tanto complicato. A volte per
cogliere dimensioni nascoste basta mettersi a disposizione per il tempo
necessario, un tempo insopportabilmente lungo per i media o per le produzioni
commerciali. E ancor prima porre, e porsi, le domande giuste. Come hanno fatto
i siriani Saeed Al Batal e Ghiath Ayub,
30 e 29 anni oggi, autori di un altro film avventurosamente distribuito in
Italia grazie agli sforzi congiunti di piccole società indipendenti come
Reading Bloom, Kama Productions e Isola Edipo: “Still Recording”. Forse il
titolo più premiato di tutta l’ultima Mostra di Venezia, dov’era alla Settimana
delle Critica. Per quasi cinque anni dunque i due giovani siriani hanno
“vissuto, mangiato e dormito”, parole loro, con i combattenti ribelli al regime
di Assad, a Douma, Ghouta orientale, alle porte di Damasco. Altri due li hanno
passati in moviola per estrarre un film da 450ore di girato. Durante le riprese
hanno visto morire ben 14 dei loro compagni di lavoro (alcune di queste morti
sono visibili, con molto pudore e lodevole accortezza, anche nel film). Mentre
Ghouta ha subito un attacco chimico che ha fatto 1500 vittime. Ma il cuore del
film non è in queste macabre statistiche. È nella capacità di mettere
continuamente a fuoco lati inediti e rivelatori della vita sotto assedio, senza
smettere un momento di interrogarsi sul lavoro che stano facendo. Dopo
l’attacco chimico, ad esempio, non escono nemmeno a girare: “Ci sono già troppe
telecamere accese in giro”. Basta riprendere i resti del missile, prova del
misfatto. O un’amica che trema e piange davanti alla tv. “L’immagine è l’ultima
linea di difesa contro il tempo”, dice Al Batal. “È la mia linea di difesa
contro la realtà; il uno strumento per preservare l’equilibrio e un modo per
eludere la domanda: cosa sto facendo ora?”. Lo dice anche ai suoi allievi in
una delle prime scene del film, una lezione di cinema guardacaso, in cui etica
ed estetica sono subito strettamente intrecciate. “Per fare un film devi avere
in mente un pubblico ideale”, prosegue Al Batal. “Noi ci rivolgiamo ai bambini
di domani. Ho impugnato la telecamera per permettere loro di farsi un’idea più
chiara della storia e di quello che stiamo vivendo in questi anni”. Non
sappiamo se il riferimento ai bambini alluda anche a “Germania anno zero”, ma
il capolavoro di Rossellini torna in mente con forza davanti alle strazianti
distese di macerie di “Still Recording” e allo sguardo carico di pietas (mai di
commiserazione) posato sugli abitanti di Douma. La differenza sta tutta nella
posizione del regista, nel senso anche fisico del termine. Reduce da “Roma
città aperta” e “Paisà”, Rossellini rappresentava un cinema ancora saldamente
egemone che per quanto neorealista inquadrava e riordinava il mondo sempre un
po' dall'alto. Saeed Al Batal e Ghiath
Ayoub non sono nessuno vivono nell'era del Web, degli smartphone e della
disintermediazione, dunque si calano personalmente , fisicamente dentro ciò che
raccontano. Non a caso uno dei grandi protagonisti del loro film è proprio il
corpo, il nostro corpo, grande rimosso da una scena mediatica che lo concepisce
solo come ricettacolo di dolore, mutilazione, morte, o viceversa come numero,
dato statistico. Mentre in “Still Recording” torna a vivere in tutti i suoi
stati. E’ il corpo che quel signore in tuta degno di un film di Ciprì e Maresco
vuole testardamente tenere in forma, ostinandosi a fare ginnastica tra le
macerie per non arrendersi alla guerra. E’ il corpo della ragazza tatuata da
Milad, lo scultore che entra in crisi e abbandona i suoi privilegi di figlio
della classe agiata per combattere. E’, ancora, il corpo atletico e snodato di
quel giovane cecchino ilare, asigmatico, assurdamente simpatico, che prova
pietà per ogni persona che abbatte (“Non è vero che è come un videogame, ogni
volta che sparo i cuore mi sanguina, tutti hanno un’anima…non per questo non
sparo”), ma la sera ascolta musica e si concede una sfrenata danza hip hop. Ma
è anche, naturalmente, quel tronco umano non meglio identificato che un
bambino, senza batter ciglio, dice di aver visto in un cassonetto dopo un
bombardamento. E che noi non vedremo mai perché Al Batal e Ayoub, malgrado la
crudezza di molti momenti, evitano rigorosamente il ricatto dell’orrore
(“Questione di rispetto: dopo l’11 settembre non circolavano immagini delle
vittime, i siriani non sono diversi dagli americani”). Anche se non perdono
occasione di interrogare il potere delle immagini. E quello della regia: quando
iniziare a girare, e quando smettere? Non quando vorrebbero i capi militari,
come si vede più d’una volta. E poi: cosa inquadrare, cosa lasciare fuori
campo? La risposta più eloquente arriva dalla scena quasi incredibile che dà il
titolo al film. Un piano sequenza “casuale” che cattura un momento terribile. È
una bella giornata, l’inverno è finito, due reclute sorridenti passeggiano.
Milad lo scultore non fa in tempo a
metterli in guardia da un cecchino che i due sono a terra, e così la telecamera
che però, appunto, continua a girare – still recording – registrando oltre ai
movimenti e lamenti di uno dei due feriti, visibile solo dalla vita in giù,
l’arrivo dei soccorsi che tenendosi al riparo, anche loro visibili solo in
parte, commentano l’accaduto come un coro greco, cercano un bastone, cautamente
precauzioni recuperano prima la pistola caduta poi la telecamera rimasta
accesa…”In momenti simili capisci davvero cosa stai facendo e qual è il tuo
mandato”, conclude Al Batal. “Normalmente nessuno rischierebbe la sua vita per
un’immagine. Ma se stai filmando una rivoluzione succede anche questo”.
Fabio Ferzetti – Cultura Cinema e guerra – L’Espresso – 11
novembre 2018 -
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