Quando il junk food è
un Killer
E se l’aumento vertiginoso di demenza che soprattutto nei
paesi più ricchi non fosse altro che il più terribile tra i frutti avvelenati
delle nostre abitudini alimentari? Se fosse collegato a grassi saturi e
zuccheri? Qualcuno ha iniziato a pensarlo, e stanno venendo fuori prove.
Intanto i numeri: si stima che, nel mondo, nel 2050 ci saranno ben 115 milioni
di persone con la demenza di Alzheimer, contro i 36 attuali (in Italia oggi
sono un milione, e il loro numero aumenta di 150 mila unità ogni anno). Colpa
innanzitutto dell’allungamento progressivo dell’età media, essendo la demenza
una degenerazione tipica del cervello che invecchia. Ma questa spiegazione, da
sola, non basta, perché altre patologie
dell’invecchiamento non hanno affatto un trend analogo e soprattutto
perché la crescita non è visibile in tutte le popolazioni che hanno allungato
progressivamente la durata della vita, ma solo in quelle che mangiano peggio e
ingrassano di più.
Tra i più convinti sostenitori di questa ipotesi c’è Suzanne
de la Monte, neuropatologa della Brown University di Providence, in Rhode
Island, che ha proposto addirittura di chiamare la demenza diabete di tipo 3,
per distinguerlo da quello di tipi 1, giovanile, autoimmunitario, e da quello
di tipo 2, associato all’obesità. Tra i molti esperimenti condotti, la
ricercatrice ha infatti visto che se nutriva gli animali con cibi ricchi di
grassi, zuccheri e calorie, le performance cognitive iniziavano molto velocemente
a declinare, fino a giungere a manifestazioni di vera e propria demenza. A ciò
corrispondeva un calo vistoso della sensibilità all’insulina, una delle
condizioni che spianano la via al diabete di tipo 2. Se infatti è ben noto che
l’insulina è l’ormone incaricato di tenere sotto controllo gli zuccheri nel
sangue, negli ultimi anni è stato dimostrato che essa agisce anche come un vero
neurotrasmettitore, aiuta le cellule nervose a interagire e fa molto altro, a
livello centrale. Di più: nel diabete 2, all’aumento di peso è associata una
vistosa crescita del rilascio di mediatori dell’infiammazione. E nel cervello,
ciò spiegherebbe l’infiammazione che sempre accompagna la demenza.
E iniziano a esserci anche studi nell’uomo. Alcune ricerche
fatte su cadaveri confermano infatti l’associazione insulina-demenza. E per
quanto riguarda i vivi, ci sono test di Susanne Craft, pioniera degli studi
sull’Alzheimer, che ha nutrito per un mese un gruppo di volontari con una dieta
ad alto tenore di grassi e zuccheri, e un altro gruppo con alimenti con pochi
grassi e zuccheri, e ha poi dimostrato che nei primi il liquido cerebrospinale
presentava un cambiamento alquanto preoccupante: l’aumento della beta amiloide,
la proteina che nell’ Alzheimer si deposita fino a devastare intere aree
cerebrali. In un altro esperimento la scienziata ha somministrato insulina in
spray nasale a un centinaio di persone, dimostrando che migliorava la memoria,
la capacitò decisionale e le prestazioni. E i suoi studi sono così convincenti che
i National Institutes of Health le hanno concesso un super finanziamento da 7,9
milioni di dollari per capire meglio se e come questa possa essere una vera
terapia, mentre altri ricercatori stanno già testando nell’uomo gli antiabetici
orali come cura anti-Alzheimer.
Agnese Codignola – L’Espresso – 26 Settembre 2013
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