Cosa Diciamo Quando
Parliamo di Dolore
Le convinzioni degli
vanno giudicate dal contesto culturale in cui sono nate
Il teologo cattolico Vito Mancuso su Repubblica, dice sì alla
libertà di scegliere sul fine vita. Giusto, peccato però che non riesca a liberarsi
dell’errato concetto cattolico di considerare la sofferenza (quella inutile e
senza speranza) un valore. Scrive: “La malattia cronica e inguaribile, segna il
conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali nel cui intreccio ciascuno
di noi consiste: a partire da essa la vita fisica, la vita psichica e la vita
spirituale non sono più in armonia. Di fronte a casi estremi di malattia,
quando la disarmonia tra le forme vitali diventa lacerante, vi sono esseri
umani che intendono mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito e quindi
scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo,
accetandone la sofferenza”. Intanto farei osservare a Mancuso che se il
conflitto è irreversibile, non si vede
come possa essere superato, come la disarmonia possa tornare sd essere armonia:
accettando la sofferenza, si accetta la disarmonia. A ogni modo, non è questo
il motivo che spinge la maggior parte dei cristiani cattolici a continuare a
sopportare una malattia dolorosa e senza speranza. Semplicemente, credono a
quanto la Chiesa ha fatto loro credere. “L’eutanasia è moralmente
inaccettabile” perché “gravemente contraria alla dignità della persona umana e
al rispetto del Dio vivente” (Catechismo n.2277). Temono di far peccato, di
dispiacere a Dio.
Altro motivo è quello indicato poi da Mancuso: “Per loro,
tale sofferenza è una forma di partecipazione responsabile alle sofferenze del
mondo e di tutto ciò che vive, emblematicamente compendiato per i cristiani
nella passione di Cristo. Personalmente mi piacerebbe, quando toccherà a me,
esserne parte”.
Ma che senso ha? Soffrendo io, forse soffre meno il mondo,
soffre meno Cristo? E quale padre amorevole malato gravemente vorrebbe vedere
un suo figlio, oltre che patire per le sofferenze patere, soffrire a sua volta
per grave malattia? La sofferenza avvicina l’uomo a Cristo, quando è l’inevitabile
conseguenza del sacrificio a favore del prossimo. Cosa c’entra la sofferenza
inutile dovuta a malattie incurabili?
Da cristiano, Vito Mancuso ha perfettamente ragione, e non lo
dico perché condivido o meno le sue posizioni, ma perché ogni posizione non va
giudicata a partire dalle proprie convinzioni, ma dal contesto culturale in cui
quella posizione è nata, si è affermata e ha trovato gli argomenti per
giustificarsi. E questo è proprio il caso relativo alla sofferenza e al dolore
Il dolore infatti è sordo e muto, il suo significato dipende dalla cultura che
lo interpreta.
Per la cultura greca, per esempio, il dolore non ha alcun
senso. Al pari della gioia, esso appartiene alla vita che, come vuole
l’ineluttabilità della legge di natura, che prevede la morte dei singoli
individui, essa non li esonera di incontrare prima o poi la sofferenza e il
dolore che occorre reggere ed esonerarsi dal metterlo in mostra. “Substine et
abstine”, dice la sentenza formulata dagli Stoici.
Per i cristiani, invece, il dolore ha un senso in quanto
concorre all’espiazione delle colpe e, come dice Francesco di Sales,
costituisce una caparra per l’eternità. Questo spiega la differenza tra la morte Socrate, che senza scomporsi
beve la cicuta, dopo aver dato ai suoi discepoli gli ultimi insegnamenti, e la
morte di Gesù, che dopo aver chiesto al Padre di allontanare quel calice, si
offre alla sofferenza della flagellazione, della corona di spine, della croce.
In una parola mette in scena di dolore in quanto evento di redenzione, come ha
fatto Giovanni Paolo II, perché come dice Giovanni Evangelista (15-20): “Se il
maestro ha conosciuto sofferenze e tribolazioni, i discepoli devono seguire la
stessa via”, Noi oggi, che viviamo nell’età della tecnica che, per quanto può,
al dolore pone rimedio, non capiamo più il senso cristiano del dolore, ma
questo non ci autorizza a ritenere che all’interno della visione cristiana
della storia, che prevede espiazione e redenzione, l’accettazione del dolore
non abbia lo senso. Lo possiamo dire solo se rifiutiamo quella visione, ma non
possiamo confutare chi a quella visione partecipa e secondo quella visione
interpreta la propria esistenza. Se lo facciamo vuol dire che rifiutiamo il
“relativismo culturale” e assumiamo quell’atteggiamento “dogmatico” che
imputiamo, non sempre a torto, alla Chiesa, quando questa interpreta le vicende
del mondo e le condotte degli uomini a partire dai suoi “principi non
negoziabili”.
umbertogalimberti@repubblica.it
- Donna di Repubblica 14 settembre 2013
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