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martedì 24 settembre 2013

Lo Sapevate Che: Parlando di Dolore...

Cosa Diciamo Quando Parliamo di Dolore

Le convinzioni degli vanno giudicate dal contesto culturale in cui sono nate

Il teologo cattolico Vito Mancuso su Repubblica, dice sì alla libertà di scegliere sul fine vita. Giusto, peccato però che non riesca a liberarsi dell’errato concetto cattolico di considerare la sofferenza (quella inutile e senza speranza) un valore. Scrive: “La malattia cronica e inguaribile, segna il conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali nel cui intreccio ciascuno di noi consiste: a partire da essa la vita fisica, la vita psichica e la vita spirituale non sono più in armonia. Di fronte a casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diventa lacerante, vi sono esseri umani che intendono mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito e quindi scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo, accetandone la sofferenza”. Intanto farei osservare a Mancuso che se il conflitto è irreversibile, non si  vede come possa essere superato, come la disarmonia possa tornare sd essere armonia: accettando la sofferenza, si accetta la disarmonia. A ogni modo, non è questo il motivo che spinge la maggior parte dei cristiani cattolici a continuare a sopportare una malattia dolorosa e senza speranza. Semplicemente, credono a quanto la Chiesa ha fatto loro credere. “L’eutanasia è moralmente inaccettabile” perché “gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente” (Catechismo n.2277). Temono di far peccato, di dispiacere a Dio.
Altro motivo è quello indicato poi da Mancuso: “Per loro, tale sofferenza è una forma di partecipazione responsabile alle sofferenze del mondo e di tutto ciò che vive, emblematicamente compendiato per i cristiani nella passione di Cristo. Personalmente mi piacerebbe, quando toccherà a me, esserne parte”.
Ma che senso ha? Soffrendo io, forse soffre meno il mondo, soffre meno Cristo? E quale padre amorevole malato gravemente vorrebbe vedere un suo figlio, oltre che patire per le sofferenze patere, soffrire a sua volta per grave malattia? La sofferenza avvicina l’uomo a Cristo, quando è l’inevitabile conseguenza del sacrificio a favore del prossimo. Cosa c’entra la sofferenza inutile dovuta a malattie incurabili?


Da cristiano, Vito Mancuso ha perfettamente ragione, e non lo dico perché condivido o meno le sue posizioni, ma perché ogni posizione non va giudicata a partire dalle proprie convinzioni, ma dal contesto culturale in cui quella posizione è nata, si è affermata e ha trovato gli argomenti per giustificarsi. E questo è proprio il caso relativo alla sofferenza e al dolore Il dolore infatti è sordo e muto, il suo significato dipende dalla cultura che lo interpreta.
Per la cultura greca, per esempio, il dolore non ha alcun senso. Al pari della gioia, esso appartiene alla vita che, come vuole l’ineluttabilità della legge di natura, che prevede la morte dei singoli individui, essa non li esonera di incontrare prima o poi la sofferenza e il dolore che occorre reggere ed esonerarsi dal metterlo in mostra. “Substine et abstine”, dice la sentenza formulata dagli Stoici.
Per i cristiani, invece, il dolore ha un senso in quanto concorre all’espiazione delle colpe e, come dice Francesco di Sales, costituisce una caparra per l’eternità. Questo spiega la differenza  tra la morte Socrate, che senza scomporsi beve la cicuta, dopo aver dato ai suoi discepoli gli ultimi insegnamenti, e la morte di Gesù, che dopo aver chiesto al Padre di allontanare quel calice, si offre alla sofferenza della flagellazione, della corona di spine, della croce. In una parola mette in scena di dolore in quanto evento di redenzione, come ha fatto Giovanni Paolo II, perché come dice Giovanni Evangelista (15-20): “Se il maestro ha conosciuto sofferenze e tribolazioni, i discepoli devono seguire la stessa via”, Noi oggi, che viviamo nell’età della tecnica che, per quanto può, al dolore pone rimedio, non capiamo più il senso cristiano del dolore, ma questo non ci autorizza a ritenere che all’interno della visione cristiana della storia, che prevede espiazione e redenzione, l’accettazione del dolore non abbia lo senso. Lo possiamo dire solo se rifiutiamo quella visione, ma non possiamo confutare chi a quella visione partecipa e secondo quella visione interpreta la propria esistenza. Se lo facciamo vuol dire che rifiutiamo il “relativismo culturale” e assumiamo quell’atteggiamento “dogmatico” che imputiamo, non sempre a torto, alla Chiesa, quando questa interpreta le vicende del mondo e le condotte degli uomini a partire dai suoi “principi non negoziabili”.

umbertogalimberti@repubblica.it -  Donna di Repubblica 14 settembre 2013

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