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mercoledì 3 ottobre 2012

Lo Sapevate Che: La Figlia della Mafia


La Figlia Della Mafia Uccisa Dal Padre Per onore

Un libro, scritto da un cronista di Repubblica racconta, 30anni dopo, la verità nascosta su un doppio delitto camuffato da incidente. E i giudici riaprono l’inchiesta.

Palermo. Ogni città ha il suo baratro. La sua bocca dell’inferno. A Palermo è dalle parti di Fondo Pipitone, nella costa nord, tra l’Acquasanta e l’Arenella, storiche borgate marinare. Esse sorgono ai piedi del Monte Pellegrino che, con il suo Castello Utveggio, domina il capoluogo siciliano. All’Acquasanta c’è il Gran Hotel Villa Igiea, residenza a cinque stelle di mafiosi e Gattopardi. Ninnoli Art Nouveau e manifesti Belle Epoque: quelle stanze hanno ospitato, con gelida indifferenza, tanto Edoardo d’Inghilterra o il Kaiser di Prussia Guglielmo quanto le cerimonie di matrimonio del boss Leoluca Bagarella e del narcotrafficante Tommaso Spadaro.
Un inferno che sembra il paradiso.
Proprio qui una ragazza di 25 anni, Rosalia Pipitone, per prima si strappò il burqa che Cosa Nostra cuce addosso alle sue figlie. Una ribellione che le costò la vita. Nata da un boss, Lia scappò di casa, si sposò contro il volere del padre, si distaccò dal marito, da cui ebbe un figlio, conobbe un amico del cuore e venne uccisa. L’ordine lo dette il padre. E se non fu l’ordine, fu assenso silenzioso. Lia aveva violato le regole dell’onore. Per eseguire il delitto senza clamori, fu inscenata una finta rapina. E l’indomani, l’amico del cuore fu gettato da un quarto piano, fingendo un suicidio per amore.
Fu la cronaca di una morte annunciata. Lia, prima di morire, chiese al marito e padre di suo figlio di non abbandonare mai il bambino, come sapesse che cosa l’aspettava. E il suo sposo non tradì mai quel giuramento. A risalire il sentiero di questa tragedia, avvenuta nel 1983, la cui messinscena aveva superato indenne ben tre processi, sono stati il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo e il figlio di Lia, Alessio Cordaro. Se muoio, sopravvivimi è il titolo di una inchiesta scritta a quattro mani, un verso profetico tratto dalla poesia preferita di Lia, di Pablo Neruda. Un’indagine che oggi ha spinto la Procura a riaprire il caso, anche grazie alle nuove rivelazioni di un pentito, Angelo Fontana.
Siamo in una Palermo di altri tempi.
Alla fine degli anni Settanta, dentro il baratro di vicolo Pipitone c’è un giardino. Qui si incontravano picciotti che presto saranno famosi. Attorno a Pino Greco, detto Scarpazzedda, si riuniscono Madonia, Lucchese, Cucuzza, Carollo, Prestifilippo. Vivono all’ombra di Antonio Pipitone, il padre di Lia. Lui è cognato di Tommaso Cannella, consiglieri di Bernardo Provenzano e braccio destro dei Galatolo, alta aristocrazia mafiosa. I picciotti di vicolo Pipitone diventeranno lo “squadrone della morte” del clan dei corleonesi, il commando di killer più spietato della storia di Cosa Nostra. Si lorderanno di centinaia di delitti, come mistici votati all’omicidio. Un team allevato da Pino Greco, killer innamorato delle armi (portava smontato in una custodia il raro mitra Thompson col quale uccise il segretario del Pci, Pio La Torre) e un fanatismo da samurai (sgriderà Antonino Madonia per aver sparato per primo, al suo posto, quando massacrarono il generale Dalla Chiesa).
Lia Pipitone, ignara di tutto, nel 1975 frequenta il liceo Artistico. Ama le tonalità infinite dell’azzurro. Lo scoprirà il figlio Alessio, quando aprirà una scatola che conserva i suoi disegni di allora. Dentro ci sono l’anello, la collanina e un orologio ancora sporco di sangue. Lia ascolta Wisch you werw here dei Pink Floyd, perché in quegli anni, a Palermo, stanno cambiando anche le borgate. Si preparano, come in tutta Italia, le occupazioni nelle scuole e nelle università del ’76-’77. Legge Che Guevara, Levi, Paolini. Sogna a occhi aperti.
Nel frattempo, il clan di suo padre diventa potentissimo. Lo scopre il giudice Falcone quando, nel 1991, arresterà l’unico ricilatore professionista di denaro di mafia finora pizzicato. Dalle borgate marinare di Palermo l’uomo aveva mosso in poco tempo 18 milioni di dollari. Con tanti soldi puoi corrompere chiunque. E infatti, inchieste e pentiti hanno rivelato che i clan della costa nord disponevano di talpe in questura e negli uffici giudiziari, il cui ruolo è stato decisivo in più di una occasione. Per esempio, è dall’Arenella che il boss Gaetano Scotto fa partire le tante telefonate che, tra il fallito attentato a Falcone dell’89 e le stragi del ’92, arrivano alle misteriose utenze della scuola per manager che ha sede nel Castello Utveggio. Telefonate a numeri che si scoprirà di pertinenza dei servizi segreti.
Come poteva sapere tutto questo Lia, quando nel ’77 scappa di casa, sull’onda della nuova contestazione studentesca?
Non poteva nemmeno immaginare che, da quel baratro nei pressi della casa paterna, sarebbero partite le spedizioni del commando che, tra l’82 e l’85, videro cadere La Torre, Dalla Chiesa e il capo della squadra Mobile Ninni Cassarà. Qualcosa, però comincia a sospettare. Durante la sua fuga, lo zio Tommaso Cannella usa modi spicci per chiedere in giro dove mai sia fuggita Lia.
Lei tira dritto. Si sposa con il fidanzatino conosciuto a scuola (ma non in chiesa, come voleva il padre), viaggia, ammira i tramonti nell’isola di Levanzo. Ma le illusioni del movimento giovanile del ’77 si stanno ormai spegnendo. Senza casa e lavoro, nel settembre del ’78 gli sposini devono far ritorno all’Arenella, a casa Pipitone. Sono anni ruggenti, per la mafia. Le ditte Pipitone e Cannella strappano i lavori per l’abbattimento delle ville storiche della borgata Resuttana. Nei ristoranti dell’Acquasanta i Galatolo pasteggiano a champagne con i narcos colombiani e i padrini americani. Il boss Vincenzo si vanta: “Se c’è un mandato di cattura, mi avvertono sempre prima”. Fiumi di eroina escono dalle raffinerie e investono la città come uno tsunami. Intanto, la borgata mormora: Lia esce senza il marito, ha un nuovo amico. Il boss interroga la figlia. Lei gli dice che sta per separarsi. Pipitone urla, minaccia, le sputa in faccia.
Via Papa Sergio 61, ore 18 e 30 del 23 settembre ’83, davanti al negozio Farmababy. Entrano due uomini eleganti, parlano in perfetto italiano, sono armati di Smith e Wesson Special calibro 38. Prendono l’incasso ma poi, invece di fuggire, aspettano. Finché entra Lia. Le sparano alle gambe. Scappano. Uno rientra, urla: “Mi ha riconosciuto”, e la finisce. Il giorno dopo, in piazza Cascino, due uomini salgono dall’amico di Lia. Gli fanno scrivere un biglietto: “Mi uccido per amore”. Poi lo gettano dal quarto piano: Lia è solo l’85° omicidio dall’inizio dell’anno.
Settembre 2012: il baratro di Fondo Pipitone, tra l’Acquasanta e l’Arenella, è ancora in mano al clan. Il figlio Alessio dice:”Mia madre voleva essere una donna libera, questo dava fastidio alla mafia”. Rosalia, ufficialmente, non è una vittima dei boss. Quante altre lapidi nascoste ci sono, nel cimitero di Palermo? Da oggi Rosalia le rappresenta tutte.
Piero Melati – Venerdì di Repubblica – 28-9-12

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