Il ragazzo doveva avere
dodici anni, almeno
quattro più di me, e questo gli conferiva ai miei occhi un’irraggiungibile
superiorità. Quando si dondola sull’altalena e sferrava calci mi sembrava
invulnerabile. Tentavamo invano di fermarlo e di costringerlo a cederci il
posto, Mio fratello maggiore, all’incirca coetaneo del nostro avversario,
guidava gli attacchi. E guardavamo come se fossero ferite di guerra i segni, un
leggero graffio e un appena visibile livido, lasciati sul suo corpo dalle punte
delle scarpe nemiche che ci arrivavano addosso come lanciate da una catapulta.
Il gioco, più sgarbato che violento, ci appassionava in quella fine estate del
1938, nel parco di un albergo di Fiumetto. Non riuscimmo mai a disarcionare
dall’altalena l’adolescente con riccioli biondi, un fisico ben disegnato e uno
sguardo deciso. Non si univa mai a noi e nel tardo pomeriggio, al ritorno dalla
spiaggia, occupava l’altalena e lanciava la sfida. Eravamo uno sparuto branco
di giovani villeggianti, ne ricordo quattro, e lui era sempre solo in
quell’oasi borghese dove all’odore denso della pineta si mescolava quello della
crema Nivea, usata per le scottature del sole. Un giorno mia madre ci disse di lasciare in pace quel
ragazzo. Non valsero le nostre proteste. Replicammo che non consentendoci di
usare l’altalena il provocatore era lui, ma fummo messi a tacere con due
schiaffi, Uno a testa. A mio fratello e a me. I due ceffoni dettero alle parole
materne il peso di un ordine perentorio: non dovevano rispondere ai calci. Mia
madre sapeva essere autoritaria e al tempo stesso giusta. Le sue punizioni
avevano sempre una spiegazione logica. In quel caso ci dette l’impressione di
non esercitare il suo potere secondo i principi che ci aveva inculcato e che
noi interpretavamo in modo spicciativo, e certamente sbagliato: rispettate e
fatevi rispettare. Qualcosa di simile a occhio per occhio. Come non rispondere
a chi ti sferrava dei calci? L’esortazione evangelica di porgere l’altra
guancia non rientrava nel nostro ancora infantile codice d’onore, più tribale
che cristiano. La remissività impostaci ci sembrò in contraddizione con
l’abituale invito a tenere la schiena dritta. Non capimmo la svolta, ma ci
adeguammo nei pochi giorni che restavano prima della fine della vacanza. Il
ragazzo coi riccioli biondi forse si stupì della nostra improvvisa gentilezza.
La nostra docilità probabilmente lo deluse. La memoria non arriva tanto lontano
per ricostruire l’episodio nei particolari. Il mistero dei due schiaffi
affibbiati a me e a mio fratello per rafforzare lo strano, perché non spiegato,
ordine di rispettare il ragazzo biondo dell’altalena, durò a lungo. Soltanto
anni dopo, evocando quella tarda estate del 1938, ricordai a mia madre
l’episodio dimenticato per due decenni. E lei mi spiegò quello che allora, a
mio giudizio, non avremmo capito. Era l’estate delle leggi razziali,
anticipando i decreti sulla questione ebraica. E in quei giorni di metà
settembre, mentre noi ragazzi eravamo impegnati nella “guerra dell’altalena”,
Mussolini pronunciava un discorso antisemita sulla piazza Unità d’Italia. Davanti
al municipio di Trieste. Il 5 agosto era uscito il primo numero di “Difesa
della razza”, diretta da Telesio Interlandi, con un disegno sulla copertina che
annunciava il contenuto della rivista: una spada, simbolo del fascismo,
divideva il profilo dell’italico antico romano da quello delle razze spurie. E
all’interno si invitavano gli italiani a “dichiararsi francamente razzisti”.
Sarebbero stati vietati i matrimoni tra italiani ed ebrei; gli ebrei non
avrebbero più potuto avere degli ariani come dipendenti; né avrebbero potuto
esercitare professioni come il notaio, il funzionario di banca, il giornalista,
l’insegnante; e gli studenti ebrei avrebbero dovuto frequentare scuole separate…Tra
l’estate e l’autunno del ’38 l’ondata antisemita si era abbattuta sull’Italia
fascista e quel ragazzo dell’altalena, essendo ebreo, ne era una vittima. Per
questo mia madre voleva che lo rispettassimo. Era un modo di dirgli che noi non
eravamo d’accordo su quel che accadeva. Quest’anno ricorre l’ottantesimo
anniversario e ho l’impressione di sentire lo schiaffo materno.
Bernardo
Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 28 gennaio 2018 --
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