Datemi Un Medico che faccia il medico, un uomo di scienza, un
cittadino medico che possieda una coscienza, ma non ne sia posseduto tanto da
limitarne la visuale. Non datemi un medico che fa il cattolico, datemi un cattolico,
un musulmano o quant’altro che facciano il medico. Il cattolico già obietta sul
fine vita, sull’aborto, sulla pillola e vuole avere l’ultima parola sul
cittadino malato, il musulmano obietterà preso che non può avere contatto
fisico con donne o chissà quali altri divieti. Oggi il medico è diventato il
sacerdote del corpo di cui dispone per introdurre o togliere a piacimento
quanto gli detta la sua religiosità scientifica, come se il nostro corpo fosse
il tabernacolo dove alberga la sua divina scienza. Nei trent’anni in cui ho
fatto l’infermiere ho avuto spesso la sensazione nei confronti di certi medici
che fossero dei navigatori solitari. Se ti ammalavi dovevi aspettare sulla tua
isoletta che qualcuno di questi navigatori passasse con la sua barchetta di lì.
Se salivi non erano concesse deviazioni, lui era il capitano esperto, sua era
la barca, sua la rotta e sbarcavi dove ti lasciava.
Lei Si Chiede se è legittimo per un medico
farsi orientare nelle sue scelte dalle proprie convinzioni religiose o
ideologiche, in una parola dalla propria coscienza, o invece, in quanto
mandatario della società, non debba mettere tra parentesi le proprie
convinzioni e operare a prescindere da quel che la sua coscienza gli
imporrebbe. Questo problema non è affrontabile e tanto meno risolvibile se nel
rapporto medico e paziente non facciamo intervenire un altro soggetto che è la
società. Nei confronti della quale il medico, in quanto incaricato della salute
pubblica, non può esonerarsi dall’assumere una posizione, come per altro fa nel
caso della medicina preventiva, dell’isolamento delle malattie infettive e
dell’obbligo delle vaccinazioni. Ora può darsi il caso che l’etica della
responsabilità sociale dia ordini diversi, che confliggono con l’etica
individuale. E quel che lei chiede è che quest’ultimo non prenda da sola il
comando o, come vuole la sua metafora, non faccia salire il paziente sulla sua
barca decidendo la rotta e l’approdo. Si prenda ad esmepio il caso della
riproduzione che se in misura sufficiente è necessaria, in forma eccessiva
diventa pericolosa, anzi il principale pericolo per l’umanità. E siccome la
medicina sa come prevenirla, l’esonerarsi dal farlo la rende responsabile,
oltre che della morte su vasta scala di bambini che si spengono in tenerissima
età per denutrizione e conseguenti malattie, anche della distruzione
dell’ambiente che va di pari passo con il carico di popolazione, nonché della
miseria di massa di un’umanità affamata rispetto alla quale la medicina non può
chiamarsi fuori o sentirsi neutrale. Né vale l’obiezione che fertilità,
gravidanza e riproduzione, non essendo malattie, non rientrano nelle decisioni
del medico. Fino a un certo punto, perché talvolta possono diventare una
disgrazia, sia privata sia pubblica, come una gravidanza adolescenziale, una
grave malattia genetica, una situazione familiare già carica di figli e
d’indigenza. Questi casi non esonerano il medico dal dovere di essere aperto a
quella responsabilità sociale che la situazione gli presenta, e di scegliere in
base ad essa, anche se questo confligge con le sue convinzioni religiose o
morali. La coscienza individuale, infatti, essendo frutto unicamente della
propria educazione, della famiglia in cui si è cresciuti, dei maestri che si
sono incontrati, dei libri che si sono letti, è un cerchio troppo ristretto e
angusto per diventare l’unico riferimento in base al quale operare le proprie
scelte e sentirsi così esonerati non solo dalla responsabilità sociale, ma
anche dalle conseguenze che esse determinano sulla vita degli altri. Nel caso
poi del prolungamento della vita oltre la misura naturale, o di interventi
sproporzionati rispetto al vantaggio che il paziente può averne, il medico non
si chiede se tutto questo non va a scapito dell’assistenza generale, dal
momento che le risorse in ordine alle strutture, agli spazi ospedalieri, al
personale non sono illimitati, e quel che si concede a un singolo paziente non
lo si sottrae a molti nella forma di servizi più modesti, ma essenziali? Anche
qui il bene comune rientra nella coscienza del singolo medico e ne è del tutto
estraneo? Fino a che punto l’arte medica deve andare al di là delle leggi di
natura e oltrepassare quel limite che è la morte precoce a cui da sempre si è
dedicata? Del rapporto medico e paziente si è detto e scritto molto. Bene. Ora
è necessario introdurre in questa dualità un terzo ospite: l’interesse della
società, se non addirittura dell’umanità, con conseguente responsabilità
sociale del medico che non può far riferimento unicamente alla sua coscienza
individuale ricorrendo a quel principio troppo facile da praticare che è
l’obiezione di coscienza.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 20 gennaio 2018 -
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