Da Qualche Tempo a casa nostra c’è un estraneo. Non lo
abbiamo invitato, ma lui ha occupato il nostro territorio con proterva
naturalezza. I primi giorni, lo abbiamo osservato mantenendoci a debita
distanza, come si fa con gli animali feroci allo zoo con gli insetti
raccapriccianti in campagna. Ne eravamo affascinati e intimoriti. Si esprime a
monosillabi in una lingua che somiglia alla nostra ma usa parole aliene, spesso
incomprensibili (“sbatti, scialla, bellazia”). Pur essendo piuttosto magro, è
affetto da voracità bulimica e riesce a ingurgitare, in uno stesso pasto,
derrate di cibo sufficienti a sfamare un intero condominio. Dal primo istante
del suo soggiorno, senza chiedere il permesso, si è impossessato del divano, su
cui suole abitare in posizione rigorosamente sdraiata: vi staziona per ore, in
uno stato torpido di semi-incoscienza, un paio di enormi cuffie sulla testa e
di giganteschi piedi nudi su un bracciolo. Può dormire così a lungo che a turno
controlliamo che respiri ancora. Anche lui osserva noi: ci riserva sguardi di
indifferenza, di aperta ostilità ma soprattutto di commiserazione. I primi
tempi ritenevamo la sua permanenza transitoria ed eravamo certi che, così come
si era materializzato, con il suo incedere da cowboy e la sua cuffia, avrebbe
tolto il disturbo. Invece no. L’estraneo è rimasto, e con lui il passo pesante,
lo snervante mutismo alternato a dichiarazioni lapidarie e sconnesse dal
criptico ma denso contenuto filosofico, i commenti sprezzanti, gli accessi di
malumore o euforia, la musica aliena e assordante l’ostilità latente che
improvvisamente può virare in affetto esuberante. All’inizio eravamo in cinque:
due genitori e tre figli. Non dico fosse facile, anzi: era impegnativo, a tratti
sfibrante. Eppure sapevamo sempre cosa fare. Era una vita prevedibile, con
regole certe (giusto-sbagliato, sì-no, buono-cattivo, permesso-vietato), una
comunicazione fluida e continua e un solido controllo della situazione. Oggi
siamo in quattro e un adolescente, più migliaia di interrogativi. “Vuoi venire
con noi a vedere una mostra?”, gli domando. Lui sbuffa, alza gli occhi al
cielo. “Mi state obbligando?”. “No. Però sarebbe bello stare un po' tutti
insieme”. “Mi asciughi, mamma!”. “Prego?”. Scuote la testa. “Io ti amo. Ma tu
fai la brava”, mi dice con una carezza. E alla mostra non viene. Ha orari, usi
e costumi diversi dai nostri. Ci incrociamo saltuariamente, quasi per sbaglio.
Rassegnata alla convivenza con l’alieno, lo scruto di sottecchi, cercando di
carpirne i pensieri, i mutamenti, gli umori. Temo il silenzio tra noi. Perché
nel silenzio si annidano le paure, i fantasmi, le recriminazioni e i rancori.
Ho paura, nel silenzio, di svegliarmi un giorno e trovare un uomo che non
riconosco perché oggi non sono stata capace di ascoltarlo. Così cerco di
insinuarmi tra le maglie della sua corazza, di approfittare della sua guardia
abbassata. “Sabato mattina ti accompagno a scuola e se vuoi facciamo colazione
insieme al bar”. Lui biascica un grazie, le labbra si piegano all’insù in un
impercettibile sorriso. Provo, fallisco, ritento. Ricevo molti no e una
preziosa manciata di sì, grazie ai quali scopro una nuva complicità, la magia
di ridere delle stesse cose. Sono squarci di meraviglia che durano poco. Poi si
rimette le cuffie, si sdraia sul divano e torno l’astrobiologa che studia
l’extraterrestre. Qualche giorno fa è stato zitto per ore, ostile, respingente,
asserragliato nel suo antro. Poi ne è uscito e mi si è avvicinato sorridente:
“Ehi, mamma, passiamo un po' di quality
time insieme mentre mi lavo i denti?”, ha domandato. È un incomprensibile
estraneo, ma credo di volere che resti sul mio divano ancora a lungo.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 17
febbraio 2018 -
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