Sarà una strutturale inquietudine, saranno i natali a
Milano, città iperattiva e un po' nevrotica; sarà l’horror vacui da cui fatico
a guarire. Sarà tutto questo e forse altro; fatto sta che, fosse per me, nel fine
settimana andrei in gita o al parco o a una mostra o a trovare amici, e in casa
non ci starei mai. È per questo che ogni sabato mattina, assolti i consueti
doveri (compiti, spesa, ripristino del decoro domestico), mi presento al
cospetto dell’economista marxista della comune e ingrata mole con variegate
proposte cultural-ricreative per allietare le ore, risvegliare le torpide menti
e rafforzare i legami familiari. L’adolescente, percorso, da un brivido di
fastidio, si limita a lanciarmi un’occhiata pietosa o di scherno a seconda
dell’umore. I due piccoli ancora rispettosi dell’autorità materna e ancora
prede di uno strisciante Edipo, mi rivolgono lo sguardo supplicante ma impavido
dei martiri pronti all’estremo sacrificio. “Mo’, stiamo tato bene a casa nostra!
E fuori piove. Che bisogno abbiamo di andare sempre girando? Potremmo farci tutti
insieme una partita a Frog Juice!”, esclama dal divano il pater familias
barese, brandendo il mazzo delle carte di “succo di rana”, l’ossessione ludica
familiare di quest’anno. I figli, grati al lassismo paterno, vanno rapidi ad
acquattarsi nelle loro tane, nel timore che questo improvviso vento benevolo
possa girare e farsi tempesta, ancor peggio, feroce imperativo museale. Ogni
tanto combatto, di rado vinco, molto spesso mi arrendo. E il risultato è che
loro, accidiosi e felici, trascorrono interminabili giornate ad abbrutirsi in
preda all’ozio e al gioco (“Tu non riconosci il valore educativo e affettivo
dello stare insieme tranquilli”, mi rimprovera il marito) mentre io, frustrata
e livorosa, mi misuro con il divano, metro del mio fallimento. L’altro giorno
ripensavo ai nostri weekend dell’anno passato. E ho visto scorrere, nella
memoria, una disfatta dopo l’altra, un monumento alla pigrizia e all’indolenza.
Così, accecata dalla furia, sono andata da mio marito. “Non possiamo andare
avanti come i bruti! Quest’anno dobbiamo viaggiare, girare, visitare, fare!”,
ho dichiarato bellicosa, frapponendomi tra lui e lo schermo del suo computer.
Ha scosso la testa al ritmo della musica nelle cuffie. “Secondo me esageri”, ha
bofonchiato, senza smettere di picchiettare sulla tastiera. Così, per
dimostrargli i suoi torti con prove documentali, ho deciso che era giunta il
momento di dedicarmi all’album fotografico dell’anno scorso, una pratica
certosina ma, ex post, di grande soddisfazione per tutti. E selezionando
centinaia e centinaia di immagini, ho trovato una vita che non ricordavo.
Certo, era pieno di fotografie casalinghe: partite a scacchi, a Monopoli,
Calciobalilla, pomeriggi a base di cioccolata calda e compiti, cene con amici,
torte per ragazzini in maschera. Tuttavia, fuori da quelle mura familiari,
c’eravamo noi a Matera, sotto una tempesta di neve, noi a Ravenna tra i mosaici
di Galla Placidia, noi alla Villa Reale di Monza, noi alla mostra di Lucio
Fontana, noi in un museo di arte contemporanea a cielo aperto, no ai tavolini
di un caffè dentro un parco, noi alla scoperta del mondo, noi come mi
piacerebbe che fossimo. Allora, forse, siamo meglio di come ci vedo. Ogni tanto,
nonostante le resistenze, l’indolenza, i musi lunghi, gli sguardi stralunati,
ci spingiamo oltre il nostro naso e varchiamo la porta. “Vedi? Ti lamenti per
niente. Ho ragione io”, dice mio marito sfogliando l’album. “No. Ho ragione io.
Perché in queste fotografie siamo sempre felici”. “E quindi?”, chiede. “Quindi
uscire ci fa bene. Dove andiamo questo fine settimana?”. Lui si rimette le
cuffie. Io mi rimbocco le maniche per il nuovo round.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 10
febbraio 2018
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