Anche Nei Territori palestinesi occupati mi è successo
di essere fiero degli italiani. Visito la chiesa della Natività di Betlemme (IV
secolo, epoca di Costantino), e scopro che i preziosi mosaici li stiamo
restaurando noi. Un’azienda specializzata di Prato, la Piacenti, e squadre di
esperti dell’Università di Firenze collaborano al progetto. Riportano alla luce
tesori antichi, li restituiscono al loro splendore in una parte del mondo che
di solito fa notizia per scontri e attentati, proteste o conflitti. Se la
Palestina avrà un futuro migliore, il turismo culturale potrà aiutarla. E gli
italiani stanno facendo le cose giuste. Magari diamo per scontato, visto il
nostro patrimonio artistico e archeologico, di essere più bravi del mondo nel
restauro. Ma nei territori palestinesi ho fatto altri incontri sorprendenti. Un
carabiniere da Riva del Garda è a Hebron. Nel ruolo, davvero ingrato, di
osservatore sul rispetto dei diritti umani. Si è offerto volontario per una
missione dell’Unione europea. L’ho visto girare, disarmato, con una funzionaria
scandinava. L’unica protezione che hanno è una maglia blu con una scritta
rossa: Observer, poi la stessa parola in ebraico e in arabo. A Hebron trovo una
situazione tesa e pericolosa. Parlare di diritti umani è un azzardo in una
città che vive n gabbia. Fu ricchissima, un gioiello d’are e d’architettura, come
s’intuisce ancora adesso da quel che rimane di un centro storico meraviglioso.
Ma è in uno stato d’assedio permanente, posti di blocco dappertutto, soldati
armati e con giubboni antiproiettile. Zone arabe (maggioritarie) e insediamenti
di coloni israeliani (pochi ma determinati) si stanno incollati addosso, una
scintilla può scatenare violenze in ogni momento, ed è la militarizzazione a
garantire una calma apparente. Molte le case abbandonate, le zone murate per
chiudere il passaggio. Quando il nostro autista palestinese lascia per un
attimo l’auto in un piazzale deserto, subito si avvicina un bambino che chiede
la mancia, per “custodirgli” la macchina e garantire che la troverà intatta al
ritorno. Mia moglie Stefania si guarda attorno, nel panorama di desolazione
blindata, e si chiede: “Che futuro può avere un bambino che cresce qui? Se gli
si avvicina un jihadista e gli suggerisce di farsi saltare per aria. Lui cos’ha
da perdere?”. Il carabiniere italiano vive qua in mezzo. Lo guardano in
cagnesco i soldati israeliani e spesso i palestinesi. Chi fa l’osservatore
neutrale è sempre sospettato di essere dalla parte degli altri. Ci vuole un grande
coraggio, a trasferirsi in quell’anticamera dell’inferno. L’altro italiano che
incontro a Hebron è un giovane criminologo romano. Lavora per la Croce rossa
internazionale. Anche lui deve vigilare sugli abusi contro i diritti umani. La
sua jeep con il simbolo della Croce a volte diventa bersaglio di sassaiole. Per
l’accesso alla Tomba dei Patriarchi, alla sinagoga e alla moschea che
l’affiancano, io ho una corsia privilegiata perché “americano e cristiano”,
come mi definisce il regolamento di qui, l’unico luogo al mondo dove mi sono
sentito chiedere la religione d’origine oltre al passaporto (se musulmano, o
ebreo, puoi entrare in un luogo ma non nell’altro). Il funzionario della Croce
rossa, invece, viene fermato da una soldatessa israeliana che soleva infinite
obiezioni sui suoi documenti. Lui risponde, negozia, torna alla carica. Il rito
fa parte della sua fatica quotidiana: in molti hanno ricevuto istruzioni per
rendergli la vita impossibile. Tutti e due, il carabiniere e il criminologo, mi
chiedono di non citare i loro nomi. <di fotografarli di spalle. E di non
metterli su Facebook. Che lezione morale, in quest’epoca di narcisismo,
auto-celebrazione, gossip e ossessione per la fama. È bello che esistano
persone così.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 3
febbraio 2018 -
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