L’altro Giorno È tornato a casa distrutto. “Io non
sono in grado di assistere a scene del genere: rappresentano il peggiore dei
miei incubi” della frustrazione. “L’importanza poi mi devasta”, ha concluso
prendendosi la testa tra le mani e abbandonandosi muto al proprio sconforto.
Intanto, suo figlio era sotto la doccia, a lavar via freddo e infelicità.
Perché anche quando tutto va bene, i disastri evidentemente necessari all’umano
sostentamento, trovano luoghi ameni dove insediarsi e rilasciare il loro
veleno. Il secondogenito, incline da sempre a seguire strade autonome, spesso
divergenti da quelle familiari, l’anno scorso si è votato alla Juventus e
quest’anno, non pago del calcio tifato, è entrato in una squadra parrocchiale
di coetanei che tuttavia, a differenza del poco talentuoso neofita, vantano
un’esperienza pluriennale di campetti, rigori, fuorigioco, vittorie e disfatte.
“Il mister mi ha fatto giocare tre minuti. Il reso della partita sono stato in
panchina a congelare”, è il mantra della domenica sera. “Perché?”, è
l’interrogativo successivo che apre squarci di dolorosa autocoscienza. Seguono,
a scelta, torvi silenzi, ira funesta, scoramento, deliri di rovina, lacrime. E
tutto questo è troppo per l’economista marxista barese che si riconosce nei
capelli pazzi e nello sguardo stralunato e indomito del figlio di mezzo e, al
cospetto del suo avvilimento, resta annichilito. Malgrado la delusione si
ripeta estenuante e deprimente ogni settimana, l’inesperto ma pervicace
calciatore, preda di regolari amnesie o rimozioni, non ha mai preso in
considerazione l’eventualità, per tutti liberatoria e salvifica, di abbandonare
questa masochistica pratica e dedicarsi ad altro. “A me piace il calcio”,
dichiara convinto mentre il fragile padre geme stremato. “Non puoi stare così
male. È solo una stupida partita di calcio”, ho detto a mio marito quando
domenica scorsa, il copione si è ripetuto con il consueto carico di
disperazione. “Razionalmente me ne rendo conto ma dentro di me muoio un po'
ogni volta…”, ha balbettato lui che solitamente, tra noi, brilla per
razionalità e sangue freddo. Così ci siamo ritrovati a parlare dei fallimenti
su cui pesa uno stigma sociale e quindi psicologico pesantissimo mentre invece
sono utili e benefici. Da piccola tornavo a casa in lacrime per un voto a
scuola, perché nessuno mi aveva scelto per la squadra di pallavolo
(l’inettitudine agli sport è una tara genetica), perché un’amica mi aveva
tradita. Era doloroso per me e forse di più per mia madre, che raccoglieva i
cocci impotente. “A te non succedeva mai?”, ho domandato a mio marito. “Sì,
certo. Ma lui è il nostro bambino e io…”. Già. Al nostro bambino vorremmo
risparmiare ogni bruttura, per lui vorremmo farci arma di difesa e se occorre
di offesa, ai suoi piedi vorremmo stendere un tappeto morbido. E invece ci
tocca assistere alla sua rabbia, alla sua tristezza, alle sue sconfitte. E
augurarci che ne arrivino altre. E sperare che anche i suoi fratelli incontrino
ostacoli e frustrazioni. Perché adesso siamo qui noi a consolarli, a farli
sentire il centro del mondo. Perché adesso le vie di uscita sono facili e a
portata di mano. Perché un’infanzia lastricata solo di successi è un buon
presupposto per la fragilità nell’età adulta. “quindi?” domando a mio marito.
“Quindi il calcio fa schifo e odio quello stupido mister. Ma dobbiamo sostenere
questa follia suicida”. “Chiaro. Nel frattempo però lasciami piangere un po'”.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica –
3 febbraio 2018 –
Nessun commento:
Posta un commento