Alla Cerimonia Finale di consegna dei diplomi, sotto le
anguste volte dell’antico liceo dei Gesuiti a Washington, il presidente
annunciò trionfante a noi genitori che il 99 per cento degli iscritti era riuscito
a concludere i quattro anni con successo. Era un record nei due secoli di
esistenza per quella scuola. Ma insinuava u dubbio nei pensieri di un padre,
io. Quel 99 per cento di diplomati poteva significare che quell’istituto era
eccellente. O che anche l’antico liceo, dove presidenti americani erano andati
alla vicina Casa Bianca a tenere lezioni di latino e greco, era stato infettato
dal virus della grade inflation,
inflazione dei voti, e quindi dai diplomi facili. La memoria mi riportò
naturalmente al mio liceo-ginnasio di Milano, che dovevo raggiungere camminando
per chilometri nella neve alta (in realtà ci andavo in poche fermate di
autobus, ma ho sempre voluto scriverla, questa storia del sentiero nella neve),
scuola celebre per la ferocia dei professori che decimavano ogni anno le
classi. Dei 36 ragazzi e ragazze ammessi alla quarta ginnasio, soltanto 15
arrivarono alla maturità. Erano massacri che oggi porterebbero legioni di padri
e madri a marciare con i forconi sull’istituto, o a ricorrere alla giustizia
per migliorare i voti dei figli. Ma in una nazione come gli Stati Uniti, nella
quale il titolo di studio non ha valore legale e la qualità dell’istruzione
impartita si giudica dal liceo o dall’università frequentati (o dell’asilo,
nelle comunità più nevrotiche come New York), i voti e la media diventano
essenziali. E tanto le private come le pubbliche sono motivate ad aumentarli.
Le scuole private devono far vedere che le cifre pagate per i cari figlioletti
sono giustificate, perché le famiglie sono prima di tutto clienti. Le scuole
pubbliche più svantaggiate pompano voti e distribuiscono diplomi per dare a
quei ragazzi e ragazze una speranza di accedere a un college, o di trovare
lavori per i quali è richiesto almeno il titolo di scuola superiore, richiesto.
Gli insegnanti sono complici, per non essere accusati di non saper insegnare.
Ma il gioco è ormai troppo scoperto per funzionare. Un’inchiesta condotta lo
scorso gennaio nelle scuole pubbliche di Washington ha svelato che la metà dei
diplomi dei licei pubblici non sono giustificati dalla preparazione. Ai test di
ammissione all’università chiamati Sat, standardizzati per tutta la nazione, la
media del punteggio scende in proporzione inversa alla media dei voti. Studenti
con medie molto più alte rispetto a 20 anni or sono, hanno risultati
decisamente più bassi. La prova che molti di quei voti sono fasulli.
L’inflazione monetaria illude, creando aumenti nelle retribuzioni vanificati
dall’aumento del costo della vita (guadagnare 10mila euro al mese non significa
nulla se il pane costa 20mila euro al chilo); allo stesso modo, l’inflazione
dei voti toglie loro valore. E penalizza ingiustamente gli studenti che si
applicano di più. Se tutti prendono un A, prendere un A non ha più merito.
Persino a Harvard, considerata tra le università più severe, il virus del voto
facile ha attecchito So, per qualche esperienza di insegnante nei college Usa,
che è molto più comodo elargire il massimo dei voti a tutti e risparmiarsi
lagne, proteste, ore di istruzione supplementari, note negative nell’albo dei
giudizi che gli studenti, anonimamente, compilano alla fine del corso. Anche
questo dei voti facili è soltanto un metodo per aggirare e rimandare quello che
poi la vita si incaricherà di fare: la selezione di merito. Quella che la
scuola ha sempre meno il coraggio di fare per quieto vivere, e che incoraggia
poi la ricerca di vie traverse, raccomandazioni, amicizie, familismo e
corruzione.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 17
febbraio 2018 -
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