Nel tardo pomeriggio del 27 novembre 1952, sulla via del ritorno, dopo
quaranta giorni di marcia, dalla frontiera del Tibet, Giuseppe Tucci
raggiungeva Rumindei, in territorio indiano. “Declinando, il sole assumeva una
luce metallica e i suoi ultimi raggi illuminavano la solitudine Lo spazi
infinito dotto il cielo chiaro e il silenzio sospeso nell’aria vegliavano,
soli, sul luogo dove era nato Gautama Siddhartha che, dopo il risveglio
spirituale, doveva diventare il Buddha”. Traggo queste parole da un numero
speciale della rivista France-Aste, febbraio-giugno 1959, pubblicato a Saigon
(ed è là che l’ho acquistata), per ricordare i due millenni e mezzo
dall’apparizione sulla terra di hi ha dato origine a una delle regioni “più
durevoli e viventi”. Così scriveva Tucci, chiamato a partecipare all’opera,
quale esploratore e storico italiano, considerato allora il più grande tibetologo
vivente. Nel 1938, aveva abbracciato i principi buddisti nella loro semplicità
originale, spogli, diceva dalle architetture religiose e speculative che li
avevano travisati. Giuseppe Tucci (1894-1984) è stato un eccezionale studioso
dell’Asia, delle sue religioni e delle sue lingue, e che si è interessato
all’Asia, perché ci ha vissuto o perché l’ha percorsa con curiosità, non può
che ammirarlo. Alcuni suoi scritti e soprattutto alcuni suoi studi sull’arte
asiatica, in particolare tibetana gli hanno valso nel 1978 il premio Jawaharlal
Nehru. Altri prestigiosi riconoscimenti internazionali gli sono stati
attribuiti. Insieme ad essi il personaggio ha attirato tante polemiche. Fino ad
essere colpito da “un voluto oblio istituzionale”. Ed è contro questo “oblio” che due suoi cultori sono insorti. Maurizio
Serafini e Gianfranco Borgani hanno pubblicato alcuni scritti di Tucci in una
antologia dal titolo “Non sono un intellettuale”, edita da Arte Nomade, che è
una sfida al silenzio calato sul loro concittadino. Nel volume si ricorda che
altri grandi “orientalisti” (come si diceva, prima che Edward Said mettesse
all’indice l’espressione) sono spuntati a Macerata. Impossibile non ricordare
Matteo Ricci, il gesuita creatore della sinologia, curiosamente anche lui in
qualche modo “punito”, poiché, pur celebrato, non è mai stato promosso agli
altari. Né beato, né santo. La Chiesa è stata avara con lui. Giuseppe Tucci si
è ben guardato dall’inginocchiarsi davanti agli altari. Lui si dichiarava ateo:
non credeva né in Dio, né nell’anima. Il buddismo era per lui una regola di
vita, un metodo di condotta del pensiero, una filosofia, un culto devoto, un
rito. Per il buddista Tucci contavano soltanto “un retto pensiero, una retta
parola, una retta azione”. Studioso, esploratore, poliglotta (dal sanscrito
all’hindi al tibetano al cinese), Giuseppe Tucci non credeva in Dio, ma aveva
il culto di se stesso. E il suo comportamento, definito spigoloso anche dagli
amici, e la sua morale ubbidivano spesso a un forte egocentrismo quando si
trattava di condividere vantaggi e successi nella ricerca. Nel 1948 si trovò
davanti alle porte chiuse di Lhasa e per superarle avrebbe fatto valere la sua
fede buddista, lasciando il resto della comitiva, in cui c’era Fosco Maraini
come fotografo, fuori dalla capitale del Tibet. E fu qundi il solo a visitarla
e a poterla descrivere. L’episodio, vero o inventato, ha alimentato a lungo la
fama di Tucci come personaggio difficile. Più che fascista fu un “tuccista”. A
dirlo è stato Fosco Maraini, che non ebbe sempre facili rapporti con lui, ma
con il quale è stato generoso nei ricordi. Un libro dedicato a Tucci ha come
titolo “L’esploratore del Duce”. Alla liberazione fu epurato per alcuni mesi, e
privato del suo prestigioso Ismeo (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente),
anche perché accusato di avere sottoscritto il Manifesto della razza, benché
pare non fosse reperibile l’originale della sua firma e non risultassero suoi
scritti o dichiarazioni antisemite. Quando recuperò il suo prestigioso istituto
lo incontrai per un’intervista e ne constatai la ruvida correttezza. Più che
servire il fascismo, che usava la sua fama di scienziato, Tucci si servì del
fascismo che gli offriva generosi mezzi per le sue esplorazioni.
Caduto il
fascismo, dopo una pausa punitiva, si servì della democrazia che riprese a
finanziargli viaggi e studi. Hanno ragione i suoi fedeli maceratesi a
protestare perché il loro Giuseppe Tucci è stato dimenticato. Per l’Asia ha
venduto l’anima che diceva di non avere. Bernardo
Valli – Dentro e Fuori – L’Espresso – 18 febbraio 2018 -
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