In Questo
Inverno americano
brutale, che neppure le esternazioni di Donald Trump sono riuscite a scaldare,
il ricordo dei miei inverni a Mosca è tornato a bussare. Ha preso la sagomina
di uno dei miei nipoti – quello che in famiglia chiamiamo DJ dalle iniziali dei
suoi nomi e non perché abbia la vocazione a lavorare nelle balere – quando,
quando in una mattina gelida di gennaio, è andato a trascorrere una giornata di
scuola nel liceo che vorrebbe frequentare il prossimo autunno. Nonostante le
insistite preghiere dei genitori e i 500 metri da fare a piedi fra la fermata
della Metroe la scuola, DJ è uscito di casa vestito soltanto con una felpina
sopra la maglietta, rifiutando indignato il giubbotto imbottito. E io sono
tornato davanti alla Anglo-American School di Mosca dove i miei figli piccoli
erano all’asilo. Dalle porte, dove noi accompagnavamo i bambini vestiti da
astronauti, dai moonboot ai piedi fino ai passamontagna con le braccine tenute
larghe e paralizzate dalle imbottiture, uscivano i liceali, i teenager, in
felpa o addirittura in semplici T-shirt, affrontando le temperature artiche
della capitale russa. Sembrava che i nostri figli fossero sbarcati da un altro
pianeta, rimpannucciati com’erano nonostante i rimbrotti delle anziane russe,
che ci accusavano di non coprirli mai abbastanza. Mi era quasi convinto che
quei ragazzi e ragazze americane appartenessero a una specie diversa dalla
nostra, che fossero creature darwiniamente evolute per resistere seminude in
climi artici. Ma il sospetto veniva poi rapidamente dissipato quando scoprivo
che quei figli di diplomatici o giornalisti americani venivano anche dalla
assoluta California o dalla Florida tropicale. Non c’era nessuna mutazione, in
quei teen ager americani. C’era soltanto, oltre alla felice incoscienza dell’età,
alla certezza dell’invulnerabilità e alla fiducia negli antibiotici, quello che
ho scoperto esserci nei miei nipotini ormai entrati anche loro, a 13 anni,
nella terra incognita dell’adolescenza: il terrore di non appartenere al
gruppo, di apparire diversi, pussier,
fighette, e quindi di non essere accettati. Se il branco sfida il gelo, chi del
branco vuol far parte non può presentarsi, soprattutto come nuovo cucciolo,
infagottato dalla testa ai piedi, perché nessuna ipotermia
È micidiale
e raggelante come essere respinti, lasciati ai margini e magari derisi. Il
timore di apparire “fighetta” non è neppure esclusiva degli insulti sessisti
fra maschietti. Le femmine non ne sono immuni. “Niente di quello che ho
promesso o minacciato ha convinto mia figlia di 14 anni a vestirsi calda,
quando l’onda polare è arrivata sulla nostra città”, ha scritto al New York Times una pediatra che si è
chiesta perché i ragazzi, e soprattutto i ragazzi americani, abbiano deciso fra
di loro, in quei misteriosi e invisibili congressi dai quali noi adulti siamo
esclusi, che coprirsi quando fa freddo sia anatema. Non ha trovato una
risposta, come non la trovo io.
. Se non nel
vago ricordo delle discussioni con mia madre quando, all’alba della primavera
milanese, tentavo di uscire senza il cappotto, stroncato dalla sentenza finale:
“No, prendi freddo”. Quel “prendere freddo”, che per le generazioni
pre-pennicillina quando una polmonite poteva essere micidiale, è divenuto
dovere, e guai a chi osa dare segni di vulnerabilità ai brividi, di fronte ai
propri simili. I miei figli erano troppo piccoli per ribellarsi alla vestizione
da astronauti che gli imponevano in Russia. I miei nipoti sono ormai grandi
abbastanza per avere freddo e per negare spudoratamente, tornando bianchi e pallidi
da scuola, di averlo patito. Diventeranno grandi anche loro quando scopriranno,
se lo scopriranno, il diritto di vestirsi e coprirsi come vogliono loro e non
come vogliono “gli altri”.
Vittorio
Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 27 gennaio 2018 -
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