Per Una Bizzarra e nevrotica forma di ordine mentale,
la mia vita è suddivisa per incombenze: aprile è il mese dedicato ai
compleanni; maggio al tagliando dell’automobile dal meccanico e dei figli dalla
pediatria; gennaio ai buoni propositi; settembre e ottobre alla prevenzione. In
questi due mesi concentro ogni ansia legata al mio presunto buon funzionamento
e diligentemente mi sottopongo a esami del sangue, pap-test, mammografia,
ecografia e tutto ciò che il mio medico e la mia strisciante ipocondria
suggeriscono. In famiglia, poi, ho una storia triste legata ai nei, che i
medici chiamano nevi: per questo, con maniacalità implacabile, voglio che si
controlli ogni centimetro di me, alla ricerca della mia macchiolina sbagliata.
Il mio dottore dei nevi è una creatura rigorosa e amabile al quale ogni vola,
mi affido con sottile trepidazione e devastante angoscia, che dissimulo con
ipocrita e goffa disinvoltura. Qualche anno fa, decisi unilateralmente che il
nostro rapporto, come un videogioco, era salito di livello e meritava una
promozione. “Credo sia arrivato il momento di darci del tu”, annunciai a
sproposito, al termine di una dotta spiegazione sui nevi di Sutton. Interpretai
il suo silenzio rassegnato come un entusiastico assenso e accolsi il suo: “Ci
rivediamo tra un anno” come suggello della nostra imperitura amicizia. “Questo
nevo non era così l’ultima volta…Hai per caso notato da quanto tempo ha
cambiato colore?”, ha detto durante l’ultima, recentissima visita. “No”, ho
balbettato. “Io lo toglierei…”. “Certo! Se tu dici che è da togliere,
togliamo!”, ho risposto, annichilita dall’ansia ma con l’ardore esaltato
normalmente riservato alle attività ludico-ricreative preferite. Abbiamo
fissato l’intervento una settimana dopo e io sono entrata in un tunnel
apocalittico, popolato da mostri, tappezzato da ricordi tristi e da storie dal
finale disgraziato. “Secondo te perché sono così preoccupata? Non mi è mai
successo prima”, domandavo a mio marito, con cui condividevo, con la perfida e
impudica generosità coniugale, i terrificanti presagi sul mio futuro breve e
tragico. “Perché invecchi”, rispondeva lui con altrettanta squisita sincerità.
Improvvisamente il mio mondo ha assunto contorni più preziosi e fulgidi, ogni
dettaglio si è riempito di significati, ogni gesto di urgenza, ogni pensiero di
sostanza. La paura acuisce i sensi e illumina di luce nitida tutt’intorno. La
miseria della quotidianità si è fatta meraviglia; la noia della ripetitività,
ipnotica. Sono stati giorni lunghi, di riflessioni metafisiche e di richiami
bruschi alla razionalità. Nel pozzo nero del pessimismo, mi sono ritrovata a
domandarmi se era proprio qui che volevo arrivare, se questo bagaglio può
essere sufficiente, se posso dirmi felice di dove sono se cambierei qualcosa,
se ho rimpianti o rimorsi. Ero impermeabile alle quisquilie, alle paturnie, ai
capricci, alla sterilità oziosa, alle minuzie irritanti e risibili. Dopo
l’intervento, rapido e indolore, in un raptus di incontenibile affettività ho baciato
con trasporto l’amabile medico, che si è tuttavia limitato a u distaccato e
professionale: “Bisogna aspettare una settimana per il risultato della
biopsia”. Quando finalmente il verdetto è arrivato (“Tutto tranquillo”, diceva
il messaggio del dottore), i nodi si sono sciolti, gli interrogativi si sono
placati e la quotidianità è tornata prepotente a riempire i miei pensieri e i
miei affanni Eppure la paura mi ha dato consapevolezza e, paradossalmente,
coraggio. E ho capito che guardarsi da fuori, con lo sguardo alto di chi si
sente sospeso, è una pratica terrificante e virtuosa, da esercitare
periodicamente. Anche fuori dal tempo della prevenzione.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 7
ottobre 2017 -
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