L’imperatrice distolse lo sguardo dalla scena con un
movimento brusco, per manifestare il suo dissenso, quando Filippo II rivolto al
Grande Inquisitore, scandì con tono sprezzante “tais-toi prétre”. Eugénie, la
moglie di Napoleone III, campione dell’ordine morale e nemica di tutto ciò che
poteva contrastare il magistero della Chiesa, vide in quella frase un oltraggio
inaccettabile. Quasi una bestemmia. È probabile che il compositore non le
andasse troppo a genio. Era un patriota d’oltralpe e come tale una minaccia per
la Roma pontificia, che le stava a cuore. Lei la voleva occupata e difesa, come
era, dalle truppe francesi per impedire che diventasse la capitale dell’Italia
unita. Al quarto atto del “Don Carlos”, quando Ildar Abdrazakov, il basso
che interpreta il Grande Inquisitore, faccio un balzo indietro nel tempo di 150
anni. Dopo avere navigato per più di tre ore nella musica e nel canto. Lo
spettacolo assume per me una piega che definisco forse abusivamente “storica”.
È in effetti una semplice cronaca, recuperata nella memoria, mentre sono seduto
nella platea della parigina Opera Bastille. Ed è la cronaca della prima repprentazione
del “Don Carlos”, nell’edizione francese quella originale. Che è poi quella che
sto vedendo. L’edizione italiana verrà dopo e si chiamerà “Don Carlo”. L’undici marzo 1867 è presente in teatro la coppia imperiale, l’intero governo e gli
ambasciatori. Giuseppe Verdi ha composto l’opera bottega” come chiamava l’Opera
di Parigi, in mesi politicamente agitati. Per lui tormentati. L’esercito
italiano è stato battuto a Custoza e la flotta è stata affondata a Lissa da
quella austriaca. Mentre sul libretto di Joseph Méry e Camille du Locle crea la
musica di quella che (con Falstaff) è non solo per me la sua maggiore opera,
Verdi segue con ansia gli avvenimenti dolorosi per un patriota appassionato
come lui. Almeno una notizia lo conforta: la consegna di Venezia all’Italia.
L’Austria ne ha trasferito la sovranità alla Francia, che a sua volta la cede al
governo di Firenze, capitale provvisoria del Regno ancora amputato di Roma. È
senz’altro avventato scorgere nella musica che ascolto le emozioni politiche
vissute dall’autore mentre la componeva, su una trama ricavata da un dramma di
Schiller, molto distante dall’attualità. Lo spettatore si affida
all’immaginazione. Pensa fuori campo. È il privilegio di un paria della musica.
Ma di ritorno a quell’undici marzo parigino di un secolo e mezzo
fa. L’accoglienza del pubblico non è entusiasta e i critici dicono che Verdi
“ha fatto del Wagner”, che si è ispirato al compositore tedesco. In realtà,
mentre lavorava al “Don Carlos”, Verdi non conosceva ancora le opere Do Wagner.
Non poteva quindi esserne stato influenzato. Uno dei maggiori critici parigini,
Théophile Gautier, esalta senza riserve la “forza dominatrice” e “la potente
semplicità” del “maestro di Parma”. Il Don Carlos” integrale, nella versione
originaria, è lo spettacolo principale della ricca stagione lirica parigina.
Era il più atteso. Ma come nel 1867 i critici indigeni hanno qualcosa da
ridire. Non sull’opera, da un pezzo consacrata: né sui protagonisti di gran
lusso, da jona Kafmann a Elina Garanca a Ludovic Tézier; ma sulla regia
definita banale, distratta, di Krzysztof Warlikowski, di solito ricco di idee,
di sorprese, e questa volta, in una grande occasione, più che normale. Quindi
deludente. Eppure l’atmosfera e le scene vagamente anni
Quaranta-Cinquanta del secolo scorso, viste dai critici come una scorciatoia
sbrigativa del regista, danno alla trama un’impronta che sfugge al tempo. La
vicenda in cui si muovono un re e un Infante di Spagna, una principessa di Francia,
un Grande Inquisitore, il fantasma di un imperatore e tanti altri personaggi di
un’ambiguità moderna, assumono valori fuori dal tempo, o se si vuole costanti
nella Storia, cioè di tutti i tempi. Nel “Don Carlos” si scontrano la
passionale insensatezza dei sentimenti e la ragion di Stato, l’invadenza della
religione nel temporale e l’egemonia del potere laico, il despotismo e il
liberalismo, gli slanci del cuore e i doveri del potere. Insomma un dramma
politico che può essere dei nostri giorni.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 22 ottobre
2017 -
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