Si Trovano In Cima all’hit parade dei “cattivi”. Non
parliamo dei gangster al soldo di Al Capone, il nemico pubblico numero uno
dell’America degli anni del protezionismo, o dei villain che fronteggiano gli Avengers, bensì di persone in carne e
ossa, anche se poco riconoscibili. Sono i “lobbisti”, adepti di una professione
racchiusa in una parola - dal sapore un po' vago e indeterminato – che evoca
trame, piani oscuri e pressioni indebite, ai danni di cittadini e contribuenti.
O, almeno, questa è la narrazione dei politici populisti che, fedeli all’eterna
ricetta della costruzione del nemico, hanno trovato da qualche tempo
l’avversario perfetto nel lobbista. <ovvero, in colui che, per chi dichiara
di difendere un ipotetico popolo inteso come un tutto indistinto e una comunità
organica, si rende responsabile del peggiore degli atti: spaccarne la supposta
unità per far passare i “loschi” interessi privati di pochi. Ma, naturalmente,
il lobbista non costituisce solo la bestia nera dei populisti oggi di moda. È
anche un avversario della sinistra radicale che non ama il capitalismo. E un
sorvegliato speciale di quella riformista, che non combatte il mercato ma lo
vuole rendere meno disuguale. E quindi si preoccupa dell’alterazione delle
regole della competizione economica, e del fatto che il principio della
concorrenza possa essere annullato da chi si infila in maniera occulta nei
processi decisionali per sbilanciarli verso qualcuno degli attori. Quella del
lobbista è anche una professione assai sofisticata, con competenze elevate,
forse anche con un corredo di dubbi morali – sempre che non la si intenda come
quella di un faccendiere “all’amatriciana”. La sua versione complessa e più
interessante è quella proposta dal bel film Miss
Sloane, il thriller diretto da John Madden, con una superlativa Jessica
Chastain che lascia il suo lavoro retribuito a molti zeri in un’agenzia di
lobbying conservatrice per supportare la causa della limitazione della vendita
di armi. Lo f su impulso di una molla interiore che si rivela più psicologica
che etica: in questo modo, il regista ci regala la prima pellicola che mostra
in maniera dettagliata il lavoro di chi fa lobbying (o, forse, la seconda dopo Thank You for Smoking del 2005,
interpretata da Aaron Aaron Eckhart, sulfureo lobbista fumatore al servizio di
Big Tobacco). Si tratta di due film molto american, che vedono ambedue nel “machiavellismo”
l’anima profonda e deteriore della politica e del lobbismo. La nascita in senso
professionale di questa attività avvenne negli Stati Uniti all’inizio del ‘900
(a Washington), per la precisione, a opera dell’avvocato William Wolff Smith),
e vide attive le figure che inventarono le pr industriali, come Ivy Lee
(consulente d’immagine della famiglia Rockefeller) ed Edward Bernays (teorico
della persuasione scientifica, nipote di Sigmund Freud). Un ambito che crebbe a
tal punto, impensierendo i legislatori Usa, da portare già nel 1946 alla
promulgazione di una legge in materia. The Lobbying Act, via via modificata,
per introdurre norme e trasparenza in un universo in cui l’ambiguità tende a
farla da padrona. Ed è proprio qui il punto essenziale: la presenza e la
rappresentanza degli interessi particolari organizzati in una democrazia
pluralistica (una poliarchia, come avrebbe detto il grande politologo
statunitense Robert Dahl) non è soltanto inevitabile, ma anche necessaria, per
molti versi. E, dunque, la questione non sta nel demonizzarli in maniera
generica e indistinta, senza peraltro ottenere risultati. Ma nel renderli
visibili. E regolarizzati.
Massimiliano Panarari – Opinioni – Donna di La Repubblica – 7
ottobre 2017 -
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