Il Programma Sportivo del fine settimana per i miei paperi
arriva di venerdì via sms, inviato premurosamente dalla mamma. Ne prendo uno
qualsiasi, di metà settembre, quando la riapertura delle scuole scatena la
ripresa dello sport organizzato. I miei tre nipoti di 7, 19 e 13 anni
cominceranno alle 8 del mattino di sabato, con Anna, 10 anni, in una partita di
lacrosse, giocato con bastoni dotati di cestelli. Alle dieci scende in campo
Julia, 7 anni, con il calcio. All’una di pomeriggio è di turno Devin,
calciatore di 13 anni. Alle cinque di nuovo Anna, che chiude la giornata con l’hockey
sul prato. Il giorno dopo, domenica, si ricomincia. Il nonno affettuoso, che
vorrebbe assistere a tutte le gare, è nei guai: siamo in America, non a San
Marino. Questi tornei e partite di campionato sono spalmati su territori grandi
come la Lombardia. È come se la piccolina con la sua mazza giocasse a Pavia, il
maschietto calciatore scendesse in campo a Bergamo e la bambina dell’hockey su
prato gareggiasse a Mantova. A meno di possedere un elicottero privato, anche
il nonno più devoto ed equo deve scegliere, creando inevitabili “permali”.
Questo è il girone infernale creato dallo sport organizzato, che ha demolito lo
sport spontaneo e ricreativo, i quattro calci al pallone, e ha prodotto una
mostruosità chiamata travel team.
Sono le squadre che viaggiano, i team la trasferta che originariamente
avrebbero dovuto selezionare i migliori, lasciando alle schiappe il piacere di
giocare con altre schiappe. Anche tralasciando il crudele trauma di sentirsi, a
7-8 anni, eliminati da una squadra per far posto a una giocatrice migliore, l’istituzione
del travel team ha provocato altri
effetti tremendi. Si sono diffusi gironi, campionati, tornei, club,
associazioni che si fanno pagare cifre profumate per selezionare i campioncini,
anche quando non sono tali. Genitori e parenti vivono ore di ansia in attesa
che il coach, l’allenatore, decida se scegliere o scartare il loro gioiello
che, alla fine, sarà probabilmente accettato perché, se non ce la fa nella
squadra A, ci sarà la B e poi la C e poi la D, e via pagando. Da costa a costa,
uragani permettendo, ogni weekend le strade americane si popolano di suv e
minivan che trasportano, in direzione uguale e contraria, carichi di mazze e
uniformi, racchette e parastinchi, gonnelline per il lacrosse femminile e
bragone per il basket maschile, tacchetti, elmetti e sedie portatili per i
nonni artritici che assistono. E’ un ciclopico giro di affari, oltre, che di
persone, che spreme soldi per le iscrizioni, per le uniformi e per gli
attrezzi, per i carburanti consumati, per gli hamburger ingurgitati tra un
fischio finale e uno di inizio, a cinquanta chilometri di distanza uno
dall’altro. E sta avendo un effetto micidiale quello di accrescere la
divisione, ormai fisica, tra chi ha e chi non ha. Soltantoil 27 per cento dei
ragazzi sotto i 18 anni partecipa al grande racket delle “squadre da viaggio”,
che costano migliaia di dollari all’anno, lasciando agli altri sempre meno
spazio per praticare spontaneamente i loro sport preferiti, visto che i campi
sono affittati in permanenza dai club e dalle organizzazioni. L’obesità che in
America è in funzione inversa al reddito essendo i poveri quelli che s’organizzano
più di porcherie, cresce. Nei campi, dove io trascorro i miei fine settimana da
biglia di flipper, non si vedono bambini o ragazzini obesi. Quelli sono
inchiodati sul divano di casa a guardare la tv, o ipnotizzati davanti al
tablet, perché non si sono soldi per lo sport organizzato. Svegliandosi
all’alba del sabato, dopo aver compilato la sera prima un itinerario di viaggio
da turista disperato, ci si scopre a guardare fuori dalla finestra e a pregare:
“Signore, fa che piova a dirotto”.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 7
ottobre 2017 -
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