Ho Memoria Di Lei da quando ho memoria di me stessa. La
leggenda e le nostre madri narrano che la prima volta ci incontrammo nell’atrio
del palazzo ’50 in cui vivevamo, lei al terzo io al primo piano. Lei, occhi
azzurri e capelli biondo cenere, se ne stava appollaiata sul passeggino con ka
curiosità pettegola e vorace dei suoi otto mesi. Io, minuscola, castana e
torva, abitavo placida il candore di una carrozzina bianca e blu. Lei era nata
a dicembre, io in aprile e per le arbitrarie ingiustizie del calendario ci
separava un intero anno scolastico, che non riuscimmo mai a colmare nonostante
la sua pervicace determinazione nel farsi bocciare agli esami di seconda
elementare dichiarando con diabolica ma vana scaltrezza, che le rondini sono
pesci. Fummo, l’una per l’altra, la sorella che non ci era toccata in sorte, la
migliore amica, la confidente, la complice. Non ci scegliemmo ma ci trovammo e
diventammo reciprocamente necessarie e inevitabili come il destino, per quelli
che ci credono. Ai miei occhi incarnava la perfezione, aveva una bellezza
diafana, algida, aristocratica, l’agilità di una trapezista, una mamma
casalinga, un padre manager, un fratello sadico, la tessera del circolo del
tennis, una casa in montagna. Era tutto quello che io, la figlia di genitori
separati, accudita da cento baby sitter, impiastro nello sport, allevata a
coltivare la mente ben più che il corpo, non sarei mai stata. Forse fu proprio
la nostra distanza a intessere la trama del nostro legame. Nella fotografia
della mia infanzia ci sono pomeriggi trascorsi a giocare alla maestra strega e
all’alunna asina, al dottore sadico e al paziente masochista, all’elastico,
alla casa di bambole, a nascondino e, più tardi, a Monopoli. Ci sono ore
passate a parlare con una sincerità impudica e disarmata perché tra noi non
c’era vergogna né rivalità né pregiudizio. Insieme eravamo libere di essere noi
stesse, ombrose, impaurite, trepidanti, fallite, sfrenate. Ci scaldavamo al
calore delle reciproche luci e, tenendoci per mano, ci proteggevamo dai
rispettivi fantasmi. Completammo l’una accanto all’altra l’alba della nostra
femminilità. Insieme ci furono mille prime volte: il primo viaggio in tram da
sole, la prima mestruazione, la prima ceretta, la prima vacanza studio in
Inghilterra, il primo reggiseno, il primo bazio, il primo amore. Se dovessi
disegnare l’amicizia, avrebbe il suo volto, le sue mani affusolate, le sue
lentiggini, i nostri silenzi, la nostra ridarella. Eravamo diverse, e nell’età
in cui la diversità non è un valore ma un intralcio mettemmo il naso fuori
dalla nostra bolla simbolica alla ricerca dell’uniformità che l’altra non
poteva regalarci. Ci allontanammo, ci ritrovammo, ci inseguimmo, ci
trascurammo, ci tradimmo, Eppure come ex coniugi che si ritrovano amanti,
continuammo a riconoscerci in quel territorio clandestino in cui ci
incontravamo casualmente. Restò tra noi una familiarità indelebile che non
riuscimmo a ignorare neppure quando le nostre strade volutamente divergevano.
Il nostro legame, sottotraccia o in superficie, restò lì, immutato a ricordarci
chi eravamo. Fu un dono inestimabile e una condanna a vita. “Sono a Milano di
passaggio. Ci vediamo?” disse al telefono un sabato mattina. Era passato tanto
dall’ultima volta. Abitiamo case, lavori, famiglie e città diverse. Siamo
cambiate. La vita fa questo effetto qui. Ci siamo date appuntamento in un posto
estraneo e anonimo. Ci siamo abbracciate in fretta, come per sbrigare una
pratica formale. “Ehi, ciao”. “ciao, era ora”. E di nuovo, tra noi, c’erano
solo quattro mesi di differenza e due rampe di scale, la consuetudine, la
prossimità, la consapevolezza che da qui non si scappa. Perché è così che
funziona l’amicizia. Ed è per questo che è tanto preziosa.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 28
ottobre 2017 -
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