Se la scors estate al mare guardandovi
intorno avete pensato di essere l’unica persona senza tatuaggi, ebbene la
vostra era una percezione sbagliata. Gli italiani che hanno scelto di ornarsi
la pelle con disegni indelebili sono poco più del dieci per cento, ricalcando
nei numeri la media della popolazione europea. La percentuale è in aumento ma è
ancora relativamente bassa e non allarmante rispetto al 20 per cento della
popolazione neozelandese, al 22,5 per cento di quella statunitense e al 24 per
cento della popolazione canadese, che vanta dunque il numero più consistente di
tatuati dell’intero pianeta: in pratica quasi uno su quattro contro il nostro
uno su dieci. Nel vecchio continente i tatuati sono circa 60 milioni, secondo
un’analisi condotta dalla Commissione europea. Considerazioni socio-estetiche a
parte, il fenomeno presenta rischi e incertezze dal punto di vista medico, che
vengono pochissimo o per niente percepiti da chi sceglie di farsi tatuare. A
essere potenzialmente pericolosi sono gli inchiostri, che nella maggior parte
dei casi sfuggono a una regolamentazione. In Europa, così come negli Stati
Uniti, rientrano tra i prodotti generici utilizzati dall’industria chimica per
la produzione, ad esempio, di tessuti o materiali in plastica. E noi ce li
spariamo sotto l’epidermide, in disegni sempre più ampi, più multicolor, più
pigmentati, più elaborati. L’analisi della Commissione europea ha identificato
in questi inchiostri sostanze potenzialmente dannose quasi nella metà dei casi.
I dati mostrano che su 358 campioni analizzati il 43 per cento conteneva
idrocarburi policiclici aromatici, sarebbe a dire potenti inquinanti
atmosferici che si trovano anche nel carbon fossile e nel petrolio. Altri stud
hanno riscontrato la presenza di ulteriori sostanze a rischio come le ammine
aromatiche primarie, i metalli pesanti e conservanti di varia natura. Questo
affinché nessuno possa poi dire: non lo sapevo.
Laura Laurenzi – Che Bellezza – Il Venerdì di La Repubblica –
20 ottobre 2017 -
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