I Rolling Stones hanno sfidato il tempo. E, per il
momento, sono loro ad avere la meglio. Lo hanno dimostrato sul campo qualche
settimana fa a Lucca, unica tappa italiana del No Filter Tour. Quando Mick Jagger, in forma smagliante, è apparso
in mezzo a un uragano di fuochi e vapori ed è partito a manetta intonando It’s Only Rock ‘N’ Roll (But I like It!),
è stato subito evidente che la rock band più longeva della storia è il simbolo
di una vita che non può e non vuole uscire dalla giovinezza. La loro vita, ma
anche la nostra, che nello star system ha ormai i suoi modelli e i suoi
paradigmi. Trasgressivi, irriverenti strafottenti, scintillanti, rutilanti,
debordanti, gli anni-Beatles incarnarono il senso stesso della società
dell’immagine e dei suoi comandamenti. Primo: non invecchiare. Perché essere
giovani non è semplicemente una questione di anni ma un modo dell’esistenza,
una tonalità dell’essere. Questa indeterminatezza anagrafica della verde età
non è peraltro un fatto nuovo, anche se sono nuove le forme e le dimensioni di
una longevità che è diventata la vera anima della società del benessere. Di cui
il rock è la colonna sonora. Perché ne incarna il vitalismo incontentabile, il
noto uniformemente accelerato, il bioritmo incalzante, che fanno tutt’uno con
le nostre giornate sempre alla rincorsa, in cui siamo tutti talmente impegnati
da non avere nemmeno il tempo di invecchiare. In realtà, ieri come oggi, la
giovinezza è un’invenzione sociale. È una categoria ad assetto variabile. È il
modo in cui ogni cultura riempie lo spazio tra l’infanzia e la maturità, e ne
definisce gli step essenziali, i confini che separano una generazione
dall’altra. Come dire che la parola “giovane” non significa niente di fisso e
immutabile. Ci sono società in cui la verde età dura lo spazio di un mattino e
altre, come la nostra, in cui il forever young è una condizione permanente, uno
stile di vita, addirittura una mentalità. Che, invece di separare le
generazioni, le tiene insieme, in uno stato fusionale. E qualche volta
confusionale. Diversamente, fino alla metà del ‘900, l’adolescenza era una fase
transitoria della vita, il tempo dell’attesa, della crescita,
dell’apprendistato. Come dice la parola stessa, che deriva dal verbo latino adolescere (la stessa radice di
“adulto”), e quindi indica uno sviluppo in atto, un processo di “adultescenza”.
Allora ai ragazzi si chiedeva di diventare al più presto grandi, posati, con la
testa sulle spalle. Futura classe dirigente, insomma. Anche per questo i ventenni
di una volta sembravano i quarantenni di offi. Proprio tutto il contrario di
quanto succede ora. Ecco perché la giovinezza si è affrancata dall’anagrafe e
una parte anche dalla fisiologia, per diventare l’emblema inquieto della tarda
modernità. In realtà, non è il numero degli anni a definire gli individui e i
loro ruoli, ma il significato che una cultura attribuisce a quel numero. Era
così una volta. Ed è così anche adesso, nell’era della velocità,
dell’efficienza e dell’onnipotenza tecnologica. Dove la gioventù si è spalmata
sulle vite di tutti, diventando una mitologia, un nuovo senso comune. Una
condizione permanente misurata in pixel di splendore. Che nel caso dei quattro
di Satisfaction continua a brillare,
a dispetto di rughe e capelli tinti. E, nonostante le loro biografie siano
piene di gioie, dolori, traversie, matrimoni, divorzi, figli, successi ed
errori, gli Stone restano le stelle fisse del rock. È dal 1962 che il loro
sound inconfondibile e irriducibile funziona come un acceleratore dell’immaginario
globale e scandisce quel cambio di ritmo che ha ringiovanito la nostra epoca.
In un tempo che ha abolito il passato e fatica a progettare il futuro, dove
tutto appare precario e interinale, e solo la giovinezza è a tempo
indeterminato. Ecco il vero algoritmo del nostro eterno presente.
Marino Niola – Opinioni – Donna di La Repubblica – 7 ottobre
2017 -
Nessun commento:
Posta un commento